Ma Rohani respinge la solidarietà di Donald Trump ai manifestanti. Almeno 12 i morti negli scontri con la polizia
Legittimate dal presidente Hassan Rohani, che domenica sera aveva difeso il diritto della sua gente a manifestare pacificamente, le proteste popolari contro il carovita, la disoccupazione e le politiche economiche del governo cominciate giovedì scorso a Mashhad sono continuate anche ieri.
Proteste che spesso si trasformano in scontri con la polizia. Almeno 12 persone sarebbero state uccise sino ad ora. Le ultime due a Dorud riferiva ieri la tv di Stato che ha parlato anche di sei morti a Toyserkan. Altri quattro morti si sono registrati a Izeh.
Video mandati in onda dai media locali o postati sui social mostrano gruppi di manifestanti che attaccano e bruciano edifici pubblici, centri religiosi, banche. Nella cittadina nord occidentale di Takestan, i dimostranti hanno dato fuoco a una scuola religiosa.
Fonti non ufficiali parlano di circa 400 persone arrestate, la metà delle quali sabato notte a Teheran. Ieri sera si segnalavano raduni di nuovo a Tehran e manifestazioni a Birjand, Kermanshah e Shadegan. La protesta è più forte in provincia dove l’economia stenta a generare posti di lavoro e dove pochi credono che si vedranno i benefici della fine – sino ad oggi solo parziale – del sistema di sanzioni internazionali che ha duramente colpito l’Iran fino alla firma dell’accordo con l’Occidente, voluto con forza da Rohani, sul programma atomico iraniano.
La situazione resta fluida. Promosse dai conservatori le proteste sono sfuggite di mano a chi pensava di usarle contro il presidente moderato Rohani. Ora, spiega l’analista Mohammed Ali Shabani sul portale al Monitor, le manifestazioni offrono l’opportunità a gruppi e organizzazioni diverse tra di loro di portare in strada una varietà di temi, dalle libertà individuali al ruolo della religione in politica. E, aggiungiamo noi, sono anche il clima dove possono più agevolmente agire i sobillatori manovrati dall’esterno, da Stati nemici o rivali dell’Iran, per cercare di gettare il Paese nel caos.
Parla chiaro il rozzo opportunismo di Donald Trump che nelle proteste in corso vede una rivolta contro il sistema e scorge la conferma delle ragioni dei suoi attacchi all’Iran e alla sua condanna dell’accordo sul nucleare. «È tempo di cambiare» il popolo iraniano «Era affamato di libertà» ha attaccato ieri il presidente Usa. «L’Iran – ha proclamato – sta fallendo a tutti i livelli, nonostante il terribile accordo nucleare della Amministrazione Obama».
Iran is failing at every level despite the terrible deal made with them by the Obama Administration. The great Iranian people have been repressed for many years. They are hungry for food & for freedom. Along with human rights, the wealth of Iran is being looted. TIME FOR CHANGE!
Il suo vice, Mike Pence, con toni da battaglia, promette di non deludere gli iraniani che manifestano. «Fino a quando Trump sarà presidente e io vice – ha scritto sul suo account Twitter – gli Stati Uniti non commetteranno il passato errore vergognoso quando altri ignorarono l’eroica resistenza degli iraniani mentre combattevano contro un regime brutale. Ora non li deluderemo».
As long as @RealDonaldTrump is POTUS and I am VP, the United States of America will not repeat the shameful mistake of our past when others stood by and ignored the heroic resistance of the Iranian people as they fought against their brutal regime… (1/2)
Non trattiene l’entusiasmo il premier israeliano Netanyahu. Ieri ha lodato i «coraggiosi che anelano alla libertà» e ha negato che Israele sia dietro le proteste.
Quindi ha puntato il dito contro il «crudele regime iraniano» che, a suo dire, avrebbe speso «miliardi di dollari per spargere odio», ossia intervendo – come hanno fatto tutti gli altri attori regionali, oltre a Usa e Russia, nei conflitti in Siria, Iraq e Yemen – invece «di costruire scuole e ospedali per il suo popolo». Infine, dopo aver accusato l’Europa di «rimanere in silenzio», ha auspicato la caduta della Repubblica islamica. Non ci vuole molto ad immaginare i festeggiamenti a Riyadh, nemica giurata dell’Iran sciita.
Mentre Usa, Israele e Arabia saudita, con il coro dei media internazionali, evocano e sognano il «cambio di regime» a Tehran, Rohani sa che la protesta non è, o almeno non lo è ancora, contro il sistema. Sa che la chiave di tutto è la soluzione dei bisogni della gente. «La nostra economia ha bisogno di un grande intervento chirurgico, dobbiamo essere tutti uniti», ha detto ieri il presidente esprimendo la «determinazione da parte del governo…a risolvere i problemi della popolazione, in particolare la disoccupazione».
E nella riunione settimanale del governo Rohani ha battuto su corruzione e trasparenza. «La critica degli affari del paese è un diritto del popolo, noi crediamo che lo Stato e il Paese appartengano al popolo», ha detto il presidente aggiungendo che Trump «non ha il diritto di simpatizzare» con il popolo iraniano. «La persona che lavora ogni giorno contro la nazione iraniana» ha concluso «non può simpatizzare con la nazione iraniana».
L’analista Mohammed Ali Shabani scrive che Rohani potrebbe usare l’ondata di proteste a suo vantaggio e per mettere in difficoltà i suoi oppositori conservatori. Ma ha bisogno di varare provvedimenti immediati a sostegno dell’economia se vuole vincere la sua battaglia. E le prospettive non sono rosee.
Oltre alla disoccupazione – che l’Iran può combattere efficacemente solo se la sua crescita, comunque significativa, riuscirà a creare un milione di posti di lavoro ogni anno – vi sono disuguaglianze crescenti, la mancanza di diversificazione economica che riduca la dipendenza dall’esportazione del petrolio, i prezzi alti dei prodotti alimentari, l’inquinamento e il degrado ambientale. Problemi lontani dal “cambio di regime” al quale lavora Donald Trump.