La guerra in Afghanistan continua. 700 ulema chiedono una sede «diplomatica» talebana a Kabul
La proposta al termine dell’Alto consiglio che dovrebbe gestire il processo di pace per conto del governo
La guerra in Afghanistan continua ogni giorno con azioni sia dei talebani – ieri nell’Helmand 14 militari governativi sono stati feriti da un’autobomba – sia dello Stato islamico – che a Natale ha colpito a Kabul un ufficio dell’intelligence afghana (Nsd) – eppur qualcosa si muove. Proprio ieri infatti si è conclusa la due giorni convocata dall’Alto consiglio di pace, una struttura del governo che dovrebbe gestire il processo di pace, e quel che ne è uscito è una novità: la richiesta che a Kabul si apra un ufficio politico dei talebani. Una rappresentanza della guerriglia non più a Doha, in Pakistan o altrove, ma nella capitale afgana. Una sorta di riconoscimento politico de facto e un’apertura sinora senza precedenti.
LA RICHIESTA non arriva direttamente dal Consiglio capeggiato da Karim Khalili, già vicepresidente con Karzai, ma da circa settecento ulema convocati dall’Acp per discutere di una possibile via negoziale in stallo ormai da almeno un anno e dopo qualche maldestro tentativo di aprire una trattativa. Il Consiglio non gode di per sé di ottima fama e i talebani lo hanno sempre ignorato ma, questa volta, la richiesta proviene da religiosi giovani e anziani di diverse parti del Paese che – per quanto favorevoli alla fine della guerra – si differenziano sostanzialmente dall’Acp o del governo diretto da Ashraf Ghani.
LO STESSO GHANI ha subito accettato di buon grado la suggestione augurandosi che i talebani facciano altrettanto, il che fa pensare che la proposta sia stata sicuramente o concordata prima o durante la Conferenza consultiva di Kabul ma resta di fatto una novità che indirettamente riconosce alla guerriglia di mullah Akhundzada un ruolo politico e che finalmente fornirebbe un «indirizzo», come hanno detto i religiosi, al quale rivolgersi per parlare con i talebani: uno spiraglio da cui iniziare. Il passo successivo resta il più complicato: proprio quattro giorni fa un comunicato ufficiale dei talebani ha reiterato la richiesta di un’uscita dal Paese delle truppe straniere, richiesta «legittima» e precondizione per iniziare il negoziato. Non di meno la nota si concludeva con un’apertura a un dialogo inter-afgano, le stesse parole usate da Ghani.
GLI AMERICANI e la Nato però, dopo ben 16 anni dall’inizio della loro occupazione militare dell’Afghanistan, non hanno nessuna intenzione di lasciare il Paese dove hanno anzi aumentato il contingente e triplicato i bombardamenti aerei. Infine la presenza dello Stato islamico (che secondo l’intelligence russa conterebbe 10mila uomini in Afghanistan) complica a dir poco il quadro anche se, paradossalmente, l’«invasore» islamista è un nemico comune sia per il governo filoamericano sia per i talebani. La sua presenza rischia dunque persino di essere un elemento a favore del dialogo.
FONTE: Emanuele Giordana, IL MANIFESTO
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Ambasciate di pace
MISSIONI DI GUERRA
Niente vale di più della testimonianza di pace diretta. Questo ci insegna il sindaco di Messina Renato Accorinti che ieri, nelle stesse ore in cui il presidente Napolitano ammoniva che la coperta è corta per le spese sociali ma che non bisogna lesinare sulle spese militari, ricordava in piazza a generali e prelati, nella Festa delle Forze armate e dei «nostri ragazzi», che bisogna «trasformare gli arsenali in granai». Non citava Marx ma Pertini. E indicava ad ognuno di noi il valore della protesta personale. Anche nell’epoca delle verità digitali del Datagate.