Il caso di Ahed Tamimi e il tempo presente
Tra i tanti esempi del tempo in cui siamo c’è il caso della ragazzina di anni 16, capelli rossi ricci come una ebrea polacca, ma è palestinese e nel video virale si scaglia a mani nude contro due soldati israeliani. Arrestata, è stata giudicata pericolosa per Israele.
Israele è il paese dove solo pochi decenni fa, più o meno all’età della ragazzina, tanti giovani europei e americani, ebrei e non ebrei, volevano andare a vivere, a lavorare nei kibbutz, nei quali il socialismo credevano fosse stato veramente realizzato. Oggi Israele è quasi divenuto il simbolo degli abbagli del Novecento europeo, delle sue colpe, delle sue sconfitte. La colpa di aver costretto gli ebrei a farsi il proprio stato-nazione che li ha resi simili agli altri popoli.
La sconfitta dell’esperimento sovietico che ha bruciato l’esistenza dell’alternativa. L’alternativa aveva forme diverse ma la sostanza comune stava nel rifiuto dello stato delle cose nell’intero mondo. E il rifiuto era spesso il primo passo per l’altro, quello della lotta per il cambiamento nei rapporti di potere. Rifiuto e lotte appartengono ormai al passato quando c’era il miraggio dell’alternativa, nel tempo presente si accettano le cose così come sono.
È la prima volta nella storia politica del mondo intero che a farsi la guerra sono rimasti solo i seguaci di differenti fedi religiose. Quasi ogni giorno sunniti e sciiti, indù e musulmani si combattono con le armi che spesso il mercato americano e europeo vende loro.
Le contrapposizioni sociali, culturali, politiche appaiono svanite in una nebbia di cui nessuno si interessa. È rimasta la politica di potenza a motivare i leader politici che si fanno reciproci dispetti ottocenteschi con i limiti imposti dall’apparato nucleare: qual è la soglia su cui la Corea del Nord e la Casa Bianca di Trump dovranno fermarsi? Forse loro lo sanno, forse lo sa la Cina. Noi li guardiamo da lontano e vediamo gli effetti degli attentati, scatenati da passioni, odi, vendette, e ci chiediamo in quale tempo siamo caduti, come abbiamo fatto a tornare al seicento europeo.
Poniamo la domanda a Google usando il computer, il cellulare e il tablet e la risposta è un inno alla gloria dell’innovazione tecnologica. La teologia contemporanea della tecnologia «ininterrotta e internazional-globale» corrisponde alle utopie del cambiamento sociale, della sua cultura, della sua politica. È una risposta da rifiutare. Dal seicento a Zuckenberg il cambiamento sociale è stata una realtà e non un’utopia.
Nel 1960 è stata pubblicata da Einaudi una ricerca sui braccianti del paese, di Di Vittorio, il grande sindacalista di quell’epoca. La ricerca testimoniava quanto le condizioni di lavoro dei contadini fossero precarie e subalterne rispetto a quelle degli operai. E la soluzione possibile e proposta era quella di «operaizzare» il mestiere di bracciante. Più di mezzo secolo dopo, nel tempo presente, i braccianti locali sono stati sostituiti da lavoratori clandestini, trattati in stato di schiavitù. E gli operai lavorano anche il giorno di Natale.
La sconfitta del cambiamento sociale si è rivelata piano piano ed è stata platealmente ammessa dopo il 1989. La sua cultura e la sua politica ne hanno pesantemente risentito. La conseguenza prima è stata accettare la sconfitta e con essa la cultura e la politica di chi aveva vinto. Si è spento l’interesse a cercare nella nebbia perché e come si era perso. Perché il cambiamento nelle relazioni tra gli uomini non era più un obiettivo politico attraente. E come era svanita la capacità del pensare alternativo.
FONTE: Rita di Leo, IL MANIFESTO
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