Stragi di Natale nello Yemen: oltre 130 vittime in 48 ore
L’inviato Onu vola ad Aden per rilanciare il dialogo, ma manca il partner: da Riyadh zero concessioni
Non è previsto Natale nel paese più povero del Golfo, attraversato da una delle escalation militari peggiori degli oltre mille giorni di conflitto già trascorsi. Le agenzie, tra lunedì e ieri, battevano a ritmo continuo per tenere il conto dei bombardamenti aerei sauditi e del numero delle vittime in 48 ore di ordinario massacro in Yemen.
Un conto chiuso ieri – temporaneamente – dalla notizia dell’uccisione di sei contadini a Hodeida, costa occidentale, tra i più sanguinosi teatri della guerra in corso per la sua importanza strategica e commerciale. È qui che ha sede il principale porto del paese, insieme a quello di Aden, a sud, via di transito del greggio diretto in Europa.
Ed è qui che ieri all’alba un raid della petromonarchia saudita ha centrato una fattoria a Khokhah, lasciandosi dietro sei vittime.
Nelle stesse ore iniziava il tour regionale dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed: a capo di un team di esperti, doveva atterrare ad Aden, capitale ufficiosa del governo yemenita in esilio (non è ancora chiaro quanto forzato) in Arabia saudita. Raggiungerà nei prossimi giorni (o settimane) Sana’a, capitale ufficiale, dal settembre 2014 controllata dal movimento Ansar Allah.
L’idea, dicono fonti interne, è (ri)lanciare un piano di pace, proporre alle parti un nuovo tavolo negoziale se «mostreranno una volontà sincera di raggiungere una soluzione politica pacifica».
E la voragine si apre: se l’Onu si attende dagli Houthi un rallentamento delle rappresaglie contro le forze fedeli al defunto ex dittatore Saleh prima di mandare a Sana’a il proprio inviato, è a Riyadh che si deve guardare. È lì, nella capitale saudita, che la volontà sincera anelata dalle Nazioni Unite pare mancare del tutto.
Lo dimostra il bagno di sangue dei giorni di Natale e Santo Stefano: sarebbero oltre 70 le vittime civili e una sessantina i combattenti Houthi uccisi in raid della coalizione sunnita a guida Saud, piovuti su tutto il paese, su zone residenziali, campi militari e mercati cittadini. Una famiglia di nove persone, di cui cinque bambini, è stata sterminata a Sana’a da cinque missili caduti sulla loro casa.
Sempre nella capitale, due edifici nel quartiere di Hay Asr sono stati rasi al suolo uccidendo undici persone, di cui tre bambini e due donne; il target era l’abitazione di un leader di Ansar Allah, Mohammed al-Raimi. Ad Hodeida sono morti otto civili, di cui due donne; a Dhamar quattro persone.
Bombe anche sui manifestanti scesi in piazza ad Arhab contro la decisione del presidente statunitense Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. E ancora 18 morti a Hais, a sud di Hodeida; 35 a Tahita; 50 vittime (secondo la tv al-Masirah, vicina agli Houthi) e 50 feriti nella città di Al-Ta’iziyeh, provincia di Taiz (altro epicentro del conflitto), nel bombardamento di un mercato.
La popolazione yemenita paga il prezzo più alto delle diverse guerre che si combattono in Yemen. Quella degli Houthi che cercano di ottenere la partecipazione politica ed economica che i regimi precedenti gli hanno negato e che Riyadh non intende riconoscergli.
Quella per procura tra Arabia saudita e Iran, con Teheran che osserva ufficiosamente in disparte l’incancrenirsi del conflitto voluto dai sauditi per ridefinire le influenze regionali. Quella dei secessionisti meridionali, pronti a vestire la casacca più opportuna pur di limitare l’avanzata Houthi e lavorare a una nuova separazione tra nord e sud.
E quella di al Qaeda nella Penisola Arabica che sguazza nel vuoto di potere e mangia territori, un passo avanti e uno indietro, ma ormai capace di radicarsi facendo leva sui clan locali e le necessità belliche della coalizione saudita.
Impossibile, in tale scenario, dare torto a Tim Lenderking, responsabile del Golfo per il Dipartimento di Stato Usa, che pochi giorni fa ha dato voce alla presunta visione trumpiana della crisi yemenita: «Non c’è soluzione militare – ha detto – C’è spazio per una partecipazione politica degli Houthi». Giusto.
Peccato che abbia dimenticato di menzionare l’attivo ruolo militare statunitense nel paese, il sostegno indefesso al processo di armamento continuo dei Saud e l’accusa agli Houthi di essere meri proxy iraniani.
FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO
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