by Anna Maria Merlo | 15 Dicembre 2017 9:49
L’Europa la zona meno crudele, il peggio è in Medioriente, dove l’1% più ricco ha captato il 61% della ricchezza (37% in Europa, 47% negli Usa, 41% in Cina)
Una lotta di classe planetaria ha avuto luogo negli ultimi 35-40 anni, con l’esplosione della mondializzazione. L’ha vinta l’1% della popolazione, come già hanno individuato i movimenti nati con l’ultima grande crisi, adottando lo slogan semplice e efficace “siamo il 99%”. Dall’inizio degli anni ’80 a oggi, l’1% ha messo le mani sul 27% della crescita, cioè più del doppio (12%) di quanto abbia fatto, complessivamente, il 50% più povero. La “colpa” non è della mondializzazione in sé, che anzi ha permesso a milioni di persone di uscire dalla povertà. Ma dal modo in cui è avvenuta la redistribuzione: in modo assolutamente ineguale e ingiusto, a causa dell’impotenza, voluta o subita, dei poteri pubblici (stati e unioni di più paesi). Per di più, questa ineguaglianza non è utile alla crescita, i paesi meno egualitari non sono quelli dove l’economia corre di più. E’ quanto risulta dal lavoro da Titani realizzato da un centinaio di economisti di tutto il mondo, coordinati nel World Wealth and Income Database (WID, world) da Facundo Alvaredo, Lucas Chancel, Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, che ieri hanno pubblicato il primo Rapporto mondiale sulle ineguaglianze mondiali dal 1980 al 2016 in una settantina di paesi di tutti i continenti. L’interesse di questo lavoro è che, oltre alla raccolta e all’analisi di dati dei paesi ricchi, sono stati studiati anche quelli (spesso difficilmente disponibili o parziali) dei paesi emergenti. Sono stati analizzati dati sul reddito, ma anche sul patrimonio accumulato.
L’1% ha captato il 27% delle ricchezze, il 50% più povero il 12%. In mezzo, le classi medie (occidentali soprattutto) hanno visto passare oltre questa straordinaria ricchezza creata, con redditi in debole aumento se non in stagnazione. Di qui le conseguenze politiche che sono sotto gli occhi di tutti, la chiusura, i nazionalismi, i voti a favore di venditori di fumo che promettono tutto e il suo contrario. Anche la distribuzione dei patrimoni resta ingiusta, anche se in modo minore che all’inizio del ‘900: nei paesi dove la classe media ha avuto la possibilità di accedere alla proprietà (in Europa occidentale), le ineguaglianze risultano minori. C’è grande differenza tra paesi e aree economiche. L’Europa è la zona dove le diseguaglianze sono aumentate di meno: il 10% più ricco concentra il 37% della ricchezza prodotta, mentre in Cina è il 41%. Questo termometro dell’ingiustizia sale in Russia al 46%, va al 47% per Usa e Canada e poi esplode: 54% in Africa subsahariana, 55% in Brasile e in India, addirittura 61% in Medioriente, con punte vergognose nei paesi produttori di petrolio (dove si è scavato anche un baratro tra popolazioni autoctone e immigrati senza diritti). All’inizio degli anni ’80, Usa e Europa sono partite da dati comparabili, l’1% più ricco controllava il 10% della ricchezza. Ma nel 2016, lo scarto è enorme: 12% in Europa, 20% per l’1% più abbiente negli Usa. Eppure la distribuzione della ricchezza negli Usa fino al XX secolo era meno ingiusta che nella vecchia Europa della nobiltà. La deriva statunitense è iniziata con la reaganomics e i tagli massicci alle imposte. Stesso divario crescente negli emergenti, tra India e Cina per esempio. La redistribuzione dei redditi, dove c’era ancora la volontà di farlo, è stata inoltre frenata dalla disparità dell’aumento del capitale, tra privato e pubblico: salito il primo, in discesa il secondo. Le privatizzazioni, ma anche l’aumento del debito pubblico, hanno impoverito gli stati e quindi hanno frenato la politica redistributiva. Contemporaneamente, la crescita dei redditi finanziari e da patrimonio è cresciuta enormemente, mentre i salari stagnavano. Cioè un altro fattore di ineguaglianza.
Nell’Unione europea le ineguaglianze sono aumentate di meno, ma sono comunque cresciute. La reazione delle classi medie impoverite è spesso la chiusura anti-europea, il voto all’estrema destra, il risentimento diffuso. Quello che è mancato è la solidarietà all’interno della Ue, che ha dato l’impressione di navigare sul libero mercato al solo vantaggio di pochi. Si torna cosi’ alla questione fiscale, dell’armonizzazione e della redistribuzione: ma qui sono piuttosto i costi della “non Europa” a pesare, non il suo eccesso (sul fisco vige il voto all’unanimità, che è sinonimo di blocco, e questa questione non è in via di soluzione mentre esplodono gli egoismi nazionali).
Il Rapporto delinea alcune soluzioni, che vanno tutte nella direzione di una ripresa in mano della regolazione da parte dei poteri pubblici: una tassazione maggiormente progressiva (ma qui, in Europa, ci vorrebbe più unione per sconfiggere il dumping fiscale in atto), che riguardi anche la trasmissione dei patrimoni e più investimenti pubblici, soprattutto nella scuola e nella formazione.
FONTE: Anna Maria Merlo, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/12/95883/
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