Il biotestamento è legge. Da Coscioni a Dj Fabo, vinta una battaglia durata quindici anni

Il biotestamento è legge. Da Coscioni a Dj Fabo, vinta una battaglia durata quindici anni

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Quando il cartellone dei voti elettronici del Senato si illumina di verde lasciando il rosso in una piccola porzione di spazio – che tradotto in numeri significa 180 favorevoli, 71 contrari e 6 astenuti -, insieme all’applauso liberatorio sfuggono anche le lacrime.

Dalla tribuna del Senato dove hanno atteso il voto definitivo alla legge del testamento biologico, Emma Bonino, Mina Welby, Filomena Gallo e gli altri leader dell’Associazione Luca Coscioni raccolgono così il primo frutto di una ultra decennale battaglia di cui sono stati antesignani e protagonisti assoluti insieme a Marco Pannella. Al loro fianco ci sono Carlo Troilo, fratello di Michele, i familiari di Luca Coscioni, la compagna di Mario Monicelli, la figlia di Carlo Lizzani e le mogli di Giovanni Nuvoli e Luigi Brunori, testimoni di un passaggio in qualche modo epocale per il nostro Paese che non sarebbe stato possibile senza il loro coraggio e quello dei loro cari defunti.

Con un’accelerazione impressa – oltre che da motivi di equilibri politici – dalla toccante odissea di Dj Fabo che ha dovuto chiedere aiuto a Marco Cappato per andare in Svizzera a suicidarsi, si conclude così una via crucis durata almeno una quindicina d’anni e che ha seminato molto dolore.

FUORI, IN PIAZZA Montecitorio dove è possibile manifestare, insieme a Marco Cappato e ai Radicali italiani a festeggiare l’arrivo del nuovo diritto ci sono centinaia di cittadini comuni ed esponenti del Pd, del M5S, di Mdp, di Sinistra italiana e perfino del centrodestra, di quella maggioranza trasversale cioè che ha tenuto – improvvisamente, e dopo anni in cui una legge sul fine vita seppur così minima sembrava un obiettivo quasi irraggiungibile – anche all’urto dei voti segreti imposti agli emendamenti.

Il testo licenziato ieri in via definitiva dal Senato era rimasto congelato in commissione Sanità dal 20 aprile scorso, quando era stato approvato dalla Camera. Ma il parto di una legge sul fina vita è stato lungo e doloroso, iniziato nel 2003 con una lettera di Piergiorgio Welby al Comitato nazionale di bioetica, passato attraverso le forche caudine del decreto del governo Berlusconi che nel 2009 tentava di fermare la morte liberatoria di Eluana Englaro (allora il Senato promise una legge entro trenta giorni, ma non se ne fece nulla) e continuato nel 2011 con il primo tentativo di normare le «Dichiarazioni anticipate di trattamento» – non vincolanti e senza alcun registro – poi affossate. Da allora in poi sono state 16 le proposte di legge depositate in materia, la prima di senso compiuto portava la firma del senatore dem Ignazio Marino, allora presidente della commissione Sanità.

EMMA BONINO, che del Senato fu vicepresidente dal 2008 al 2013, ricorda tutto, compresi gli «insulti», di quel «dibattito insopportabile sul caso di Eluana Englaro che mi toccava presiedere». E «quanto tempo, quanta fatica per arrivare a una legge di umanità – perché questo è – però quando si riesce a far sì che le istituzioni ascoltino… sono emozioni importanti – afferma l’ex ministra degli Esteri parlando alla piccola folla in piazza Montecitorio -. Ma proprio perché è un piccolo passo avanti, da qui dobbiamo trovare la forza per gli altri passi che ancora restano da compiere».

E SONO TANTI, perché il testo che norma le Disposizioni anticipate di trattamento (nell’articolo 4, il cuore della legge composta da otto articoli) lascia fuori una larga fascia di malati che ambiscono a una morte dignitosa e senza dolore ma che non dipendono da una macchina.

Nel primo articolo della legge appena varata si affronta il nodo del consenso informato stabilendo -punto importante – che «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura»; il secondo promuove la terapia del dolore e vieta l’accanimento terapeutico; il terzo considera l’applicazione delle norme su minori e incapaci; il quinto approfondisce il senso della relazione medico-paziente e della «pianificazione condivisa delle cure» attraverso anche la figura del fiduciario.

Ma è nel quarto che si esprime la possibilità di ricorrere alle Dat «in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle scelte». Le Dat, nelle quali è possibile «rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario», comprese la nutrizione e l’idratazione artificiali, vanno depositate presso un notaio o presso il comune di residenza che provvederà ad inserirle nel registro regionale. È prevista la figura di un fiduciario, in mancanza del quale, nel caso fosse necessario, il giudice tutelare potrebbe nominare un amministratore di sostegno. Il comma 5 spiega che «il medico è tenuto al rispetto delle Dat, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita».

IN SOSTANZA SI APRONO le porte all’obiezione di coscienza. E infatti accanto alle prevedibili reazioni di sdegno del mondo ultracattolico – in particolare quelle della Cei che parla di «legge preoccupante che presenta un percorso eutanasico» – va segnalata la preoccupante presa di posizione dell’Associazione Medici cattolici italiani (tranne la sezione di Milano dell’Amci che si pone in dissenso al presidente nazionale) che prevede «una forte probabilità di ricorso all’obiezione di coscienza». Previsione purtroppo non fantasiosa.

Motivo per il quale si può solo sperare che abbia ragione Beppino Englaro quando esulta pensando a sua figlia e dice: «Da oggi mai più un’altra Eluana».

FONTE: Eleonora Martini, IL MANIFESTO



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