by CORRADO ZUNINO | 11 Dicembre 2017 9:10
La legge sul consumo del suolo, dopo 1.824 giorni di discussione, è affidata al miracolo di gennaio. Per entrare in Gazzetta ufficiale e far respirare uno dei territori più antropizzati del mondo — l’Italia — il disegno dovrebbe essere approvato in seconda battuta al Senato subito dopo l’Epifania, quindi cercare il rush nuovamente alla Camera ai confini di una legislatura che finirà a marzo. I numeri, nei due emicicli, ci sono: il Pd ora è compatto, i fuoriusciti alla sua sinistra deporranno le armi sul “consumo”, Sel e il Gruppo Misto sono d’accordo, i Cinque Stelle consenzienti. Manca il tempo, però. Tre giorni fa la relatrice al Senato, Laura Puppato, ha provato a chiedere in commissione Ambiente l’autorizzazione a votare subito, senza passare dall’Aula. Il senatore leghista Paolo Arrigoni, ingegnere, ha risposto: smantellate l’impianto.
La Lega, partito produttivista, non vuole contare in saldo negativo il “terreno consumato” per esigenze industriali e sostiene che non è necessario cercare aree disponibili a una riconversione prima di aggiungere nuove solette. La norma, invece, ambisce a fermare il consumo di suolo entro il 2050. Lo chiede l’Unione europea e così è stata votata alla Camera, il 12 maggio 2016.
Il vero dramma di una legge che trova i primi riferimenti nei testi (2005) di Maurizio Lupi è che, quando si è iniziato a discutere sul serio, il Parlamento ha visto quattro governi diversi ogni volta impegnati sull’ultimo allarme. Un continuo rimpallo che ha fatto male al Salvasuolo.
E dire che quando il premier era Enrico Letta, la direttiva era stata chiara: «Il consumo del suolo sarà un collegato alla Legge di stabilità, vogliamo un iter rapido». Iter rapido. La prima, e fin qui unica, approvazione parlamentare, invece, arriva appunto il 12 maggio 2016. Il provvedimento entra in Senato e nuovi nemici ne rallentano il percorso. Tre Regioni lo rivoltano come un calzino. Il Veneto di Luca Zaia, che detiene il primato italiano di consumo, lo scorso 6 giugno approva una direttiva in proprio. Sicilia e Campania frenano, come hanno fatto con il disegno contro l’abusivismo. «Il testo nazionale è lesivo delle nostre competenze», scrivono. Così i comuni, molti a guida Pd: temono di perdere gli introiti degli oneri di urbanizzazione, le tasse pagate dai costruttori.
Al Senato Laura Puppato, già consigliera in Veneto, riprende in mano legge, contestazioni e il tomo sacro dell’Ispra: mediando con Confindustria ed enti locali, ottiene il sì dalle Regioni.
Faticosamente riscrive gli articoli 2, 3, 6 e 11, una delicata tessitura a prova di agguato (delle lobby dei costruttori, per esempio). Il premier Renzi sostiene la Legge sul consumo del suolo e ricorda di averla già fatta, da sindaco, nel Comune di Firenze. Il quarto presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ai recenti Stati generali del paesaggio chiede l’approvazione, il ministro Dario Franceschini suggerisce l’uso della fiducia. La nuova legge tiene conto delle volontà dell’Associazione costruttori in due articoli indigesti: non basta. In Senato arrivano 130 subemendamenti: serve il voto in aula. Dopo l’Epifania. Poi, se passerà, alla Camera per il miracolo finale.
Senza Salvasuolo, perderemo altri 8.000 chilometri quadrati di territorio da qui al 2050. Dice la Puppato: «Abbiamo eroso tutto quello che potevamo permetterci, abbiamo l’obbligo di calmierare le nostre voracità. Negli ultimi due anni ho visto crescere sensibilità e, ora, non fare questa legge sarebbe peccato mortale».
Il pioniere della norma, Mario Catania, ministro nel governo Monti e oggi nel gruppo Centro democratico, rivela: «Alle resistenze del centro-destra, che per tradizione difende la filiera del cemento, si sono aggiunte quelle del Pd emiliano vicino alle cooperative. Se avesse voluto, il partito di maggioranza avrebbe fatto passare il provvedimento con largo anticipo».
Stefano Lenzi, responsabile dei rapporti istituzionali del Wwf, delinea il quadro di queste cinque stagioni di ipotesi: «Un disegno di governo e con così tanti padri ha impiegato 3 anni e 4 mesi a uscire dalla Camera e 577 giorni per non uscire dal Senato. È stata una norma-manifesto e sostanzialmente orfana. Ne riparleremo, temo, soltanto nel 2023».
Fonte: CORRADO ZUNINO, LA REPUBBLICA[1]
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