Record del lavoro a termine, la crescita è sempre più precaria
La crescita non produce occupazione fissa in un mercato del lavoro che penalizza la «generazione di mezzo» tra i 35 e i 49 anni. Più del Jobs Act, hanno fatto le «riforme» Fornero e Polett. La prima ha prolungato l’età pensionabile, la seconda ha moltiplicato il numero dei rinnovi dei contratti a termine. E la disoccupazione resta stabile
Stiamo vivendo una crescita senza occupazione fissa. Possono essere spiegati in questo modo i dati comunicati ieri dall’Istat sul terzo trimestre dell’economia italiana nel 2017. Da un lato il Prodotto Interno Lordo (Pil) cresce in termini congiunturali dello 0,4% e dell’1,7% su base annua; dall’altro lato cresce l’occupazione dei dipendenti a termine di 79 mila unità, in un anno sono 303 mila. Una platea di lavoratori soprattutto precari. Tra luglio e settembre di quest’anno hanno registrato un record storico: +13,4% su anno In totale sono 2 milioni e 784 mila, il dato più alto dal 1992.
IN ITALIA OTTO LAVORATORI su dieci sono precari, in maggioranza sono over 50, mentre l’occupazione scende nella fascia anagrafica tra i 35 e i 49 anni. Un tempo, questa fascia anagrafica era giudicata come quella più «produttiva». Oggi non più: è quella confinata in un precariato senza uscita. Quando supererà i 50, ci resterà. Sostiene l’Istat che l’aumento dell’occupazione a termine tra i lavoratori maturi e anziani è stata causata «anche alle minori uscite per pensionamento». Tutto questo avviene mentre il tasso di disoccupazione resta stabile all’11,2% rispetto al trimestre precedente ed e’ diminuito di 0,4 punti in confronto a un anno prima. Dunque, cresce l’occupazione (oltre 23 milioni di occupati in totale) e, allo stesso tempo, la disoccupazione non cala in maniera significativa. Questo è uno dei paradossi della crescita senza occupazione fissa. In altre parole, l’aumento dei contratti precari che vengono accesi, rinnovati o fatti scadere a un ritmo forsennato ha gonfiato la statistica, ma non ha creato nuova occupazione. Riproduce il precariato già esistente. Lo dimostra il tasso di occupazione al 58,1%, che ha registrato un aumento dello 0,2% rispetto al precedente 57,9%. È un effetto statistico, ma del nulla ci si compiace. Ciò è bastato ieri al premier Gentiloni (Pd): «L’economia è finalmente in ripresa, i dati sull’occupazione sono da record» ha detto. Un’ altra caratteristica di questa crescita è l’aumento delle ore lavorate. Per l’Istat il totale è aumentato dell’1,5% rispetto al trimestre precedente e del 5% sull’anno. Dunque: più si è precari, più si lavora e meno si è pagati. Quando si ripete che l’occupazione cresce s’intende allora che la crescita del ritmo del turn-over, del lavoro a chiamata e soprattutto di quello a somministrazione si è fatta più intensa. Il dato è significativo: in un anno il lavoro in somministrazione è aumentato del 22,8%.
LA «CRESCITA» VANTATA da Gentiloni, e da tutto il Pd che ieri era caricato a molla e brindava per motivi elettorali, non è un abbaglio, ma un’opzione del governo della forza lavoro. L’obiettivo è tenere mobilitata, il più a lungo possibile, quei lavoratori precari che passano da un contratto all’altro, di chiamata in chiamata, e non devono restare «inattivi». Ovvero non devono essere «persone che non fanno parte delle forze di lavoro», «non classificate come occupate o in cerca di occupazione». L’«Inattivo» è una figura vicina al disoccupato e allo scoraggiato – chi non cerca più lavoro – ma non è né l’uno, né l’altro. Si crea un altro paradosso: la disoccupazione resta stabile all’11,2%, mentre l’inattività scende al 34,4% (-0,2 punti) in tre mesi perché è aumentata la quantità del lavoro precario, a termine, a chiamata o somministrazione. Queste alchimie trasformano la realtà strutturale del precariato di massa in un aggregato statistico che si gonfia e si sgonfia secondo gli interessi della politica e la richiesta dei picchi produttivi, in particolare dell’industria e dei servizi. La forza lavoro è una scorta in un magazzino: è usata quando serve. Oggi il lavoro è questo.
IL MOTORE della «crescita» non è il Jobs Act, che è fallito, ma la «riforma» Fornero che ha prolungato l’età pensionabile e la «riforma» Poletti che ha eliminato la «causale» ai contratti a termine e permette fino a cinque proroghe per una durata di 36 mesi. Finché è rimasta in ballo la pseudo-alleanza tra il Pd e «Campo Progressista» di Pisapia si è vociferato di un taglio delle proroghe da 5 a 3 e di una durata inferiore a 24 mesi. Per fingere di fare qualcosa di «sinistra». Ieri la commissione Lavoro alla Camera ha lasciato per strada l’emendamento annunciato dal consigliere economico di Palazzo Chigi Marco Leonardi sul tema. Potrebbe rientrare nella commissione Bilancio entro giovedì 14 dicembre. Oppure tornare in discussione nella prossima legislatura. Oppure mai.
FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO
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