by Patrizio Gonnella | 5 Dicembre 2017 9:42
In uno dei momenti più bui della storia italiana associazioni, operatori, avvocati, magistrati, giuristi, detenuti sono tutti in attesa della riforma dell’ordinamento penitenziario. Sono passati quasi cinque anni da quando l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani con una sentenza che ci ha fatto vergognare davanti all’Europa intera. Il sovraffollamento da un lato e l’assenza di tutele per i detenuti dall’altro hanno determinato la condanna.
Lo scorso giugno, esito di un lungo percorso di riforme iniziato all’indomani della condanna da parte dei giudici di Strasburgo, tra le mille cose negative e liberticide di un 2017 nero per i diritti umani, è stata approvata la legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, a quarantadue anni dall’entrata in vigore della prima legge sugli istituti penali del nostro paese, che, a sua volta, aveva sostituito il regolamento carcerario fascista del 1931. Immediatamente a seguire il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha messo in piedi tre commissioni per dare vita a nuove regole carcerarie per gli adulti e per i minori, per modificare e ampliare il sistema delle misure alternative, per ridurre le asprezze delle misure di sicurezza, per introdurre embrioni di giustizia riparativa.
A disposizione dei commissari c’era il lavoro articolato, approfondito, e per molti versi garantista, dei tavoli di lavoro messi in piedi dal Ministero in occasione degli Stati generali sull’esecuzione della pena che hanno costituito un’innovativa e ricca occasione di partecipazione diffusa alle decisioni pubbliche in materia di pena. Gli Stati generali hanno mostrato una massa di operatori ed esperti che ha una cultura della pena mediamente più avanzata rispetto alla classe politica e all’opinione pubblica.
Il lavoro delle Commissioni è terminato e tutte le loro proposte, dopo essere state vagliate e a tratti criticate dal garante nazionale delle persone private della libertà, sono al momento nelle mani del Ministro della Giustizia e del Governo che dovrà approvarle in via definitiva e trasmetterle alle Camere per il nulla osta finale. Un percorso che rischia di essere accidentato. Di fronte alle paure di chi afferma che in piena campagna elettorale occuparsi di prigioni e prigionieri farebbe perdere consenso e voti mi sento immediatamente di replicare che i decreti sulla sicurezza e sull’immigrazione dello scorso febbraio, la campagna contro le ong, gli accordi con la Libia non hanno prodotto neanche un voto in più per i partiti della maggioranza, anzi. L’elettorato progressista e democratico si è sentito abbandonato, sperduto.
C’è dunque in zona Cesarini la possibilità di lasciare un segno prima che questa legislatura muoia. Le aspettative del ricco mondo penitenziario non vanno tradite. Ciò che ci attendiamo senza troppi freni, remore, cautele è quanto meno: un nuovo ordinamento penitenziario per i minori ispirato a principi pedagogici e non punitivi con grande apertura all’esterno e senza vincoli nel rapporto carcere-territorio; eliminazione dei limiti normativi all’accesso alle misure alternative, ampliamento di queste ultime e superamento dell’ergastolo ostativo; riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti e delle detenute; attenuazione del modello disciplinare e riduzione dell’uso dell’isolamento punitivo e giudiziario; previsione di diritti ad hoc per gli stranieri e libertà di culto per tutti; abolizione di tutte le misure di sicurezza detentive. E ovviamente tanto altro in termini di qualità della vita interna, di ore trascorse fuori dalla cella, di diritti per le donne detenute.
Speriamo anche che, nel nome di una fantomatica efficienza, non si tolgano garanzie giurisdizionali conquistate con fatica, anzi che tali tutele si estendano. E che la giustizia riparativa non si riduca a lavorare gratis o a chiedere perdono alle vittime quale condizione (ipocrita) per avere una chance di libertà.
Dunque, che riforma sia, piena, coraggiosa, alta. Se così non fosse sarebbe un’enorme occasione buttata al vento.
FONTE: Patrizio Gonnella, IL MANIFESTO[1]
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