LA METAMORFOSI DEI FASCISTI

LA METAMORFOSI DEI FASCISTI

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Non c’è bisogno di pensare a un impossibile ritorno del fascismo organizzato sulla scena politica italiana, per preoccuparci oggi. Basta chiedersi quanto fascismo disorganico, sciolto, quasi naturale è già ritornato a circolare nella nostra società. Proprio il fatto che sia veicolato dalle notizie di cronaca spicciola dimostra che è tornato a vivere spontaneamente fuori dal Palazzo, qua e là, senza una linea di pensiero teorico che lo indirizzi e lo definisca. Anzi, non ha bisogno del Palazzo, perché si muove sotto la linea d’ombra della politica ufficiale, con blitz situazionisti che testimoniano quasi fisicamente la radicalità di un’alternativa che non ha uguali, perché viene non da un altro schieramento ma da un altro mondo: che consideravamo sepolto dalla storia, mentre improvvisamente ritrova un mercato, più sociale che elettorale.

Proprio questa alterità totale definisce la metamorfosi del fenomeno, diverso dal nostalgismo del dopoguerra, col culto della memoria nei presepi sepolcrali, e dalla marcia dentro Roma attraverso le istituzioni, negli ultimi decenni. La novità del fascismo 2.0 sta nel suo essere pura presenza, azione e antagonismo. Una formula post- politica perfetta per raggiungere le fasce più ribelli della popolazione, convincendole che l’azione è la forma estrema della semplificazione populista dei problemi complessi che il Paese ha davanti. La teoria non serve, nascerà a posteriori dal gesto esemplare, che spiega se stesso mentre si compie.

Denudato a puro gesto, fuori da ogni orizzonte culturale e ogni progetto politico, il fascismo torna così a farsi presenza originaria, senza cautele e senza mimetiche parlamentari. Una citazione esemplare, una derivazione integrale, una riproposizione esplicita, fuori dalla storia dunque al riparo dal giudizio del secolo, dalle sconfessioni della realtà europea, dalla memoria della tragedia italiana. Quello che torna è un fascismo pop, surreale, che cerca una cornice forte per fiammate testimoniali, più che un progetto politico una strumentazione pronta per un conflitto latente, evocato, sceneggiato, predisposto.

Il nemico naturale, simbolico, è naturalmente il migrante. Agendo contro di lui si raccolgono gli istinti, le inquietudini, le pulsioni profonde di una parte della popolazione infragilita dalla crisi e di un’altra parte indurita da una inedita gelosia del welfare. Un risentimento identitario che questo fascismo sparso trasforma in un inedito sentimento indigeno, risalendo istintivamente fino al mito del sangue come garanzia perpetua dell’identità in pericolo, della purezza da preservare contro le contaminazioni, con un concetto di popolo che torna a essere sostanza di carne e di sangue, comunità biologica più che Stato o nazione: infine razza.

Germinando nel conflitto sociale sospeso sulle nostre periferie, questa predicazione istintiva che torna ad unire razza e Patria, contro i “non-popoli”, può trovare spazio in un nuovissimo egoismo del benessere, del lavoro, della salute pubblica, quando lo smarrimento della crisi porta a non voler più dividere nulla di tutto questo, a distinguere tra “ noi” e “ loro”, come se l’uomo bianco fosse l’unico titolare dei diritti umani e civili: non parliamo dei diritti di cittadinanza.

Tutto questo è stato possibile per tre ragioni: il riduzionismo del fascismo storico banalizzato in vizio italiano, trasportato dalla sua eccezionalità novecentesca in un curioso capriccio del carattere nazionale, trasformato in aneddoto, nella citazione “innocente” del “ credere, obbedire, combattere”; mentre parallelamente si demoliva il nesso che collega l’antifascismo della Resistenza alla nascita della Repubblica democratica, proprio per questo non interamente octroyée ma riconquistata. Poi il mancato rendiconto della destra italiana (con l’eccezione di Fini) con l’eredità fascista, nel silenzio della cultura liberale che non ha speso a destra un centesimo del pedagogismo democratico giustamente impiegato per decenni a sinistra con il Pci. Infine, la coscienza ottusa della sinistra italiana, nelle sue ultime incarnazioni, che non ha saputo formulare un’obiezione critica, un dubbio culturale al pensiero dominante durante gli anni della crisi, lasciando così spazio all’idea che l’alternativa può nascere solo fuori dal sistema, nell’antipolitica di Grillo e Salvini, o nella destra di Trump. E ora, di fronte al fascismo che sdogana se stesso, non sa leggere il pericolo, così come non sa leggere se stessa. Quanti centri di solidarietà sommersa esistono nel nostro Paese come quello di Como assaltato dai naziskin, con le macchine da cucire negli scaffali per sistemare gli abiti d’emergenza ai migranti, e i volontari umiliati dalla violenza del blitz? La sinistra lo sa? Bisognerebbe avere il coraggio di dire che è qui e non nel sangue che si forma il tessuto connettivo di una comunità civile, di una democrazia occidentale, della Repubblica.

Fonte: Ezio Mauro, LA REPUBBLICA



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