Stragi negli USA. Congresso corrotto e prigioniero delle lobby delle armi
Stati uniti. La paralisi del sistema politico americano sulla questione delle armi.
Siamo alle statistiche: quello di domenica a Sutherland Springs è stato il peggiore massacro di civili nella storia del Texas, o ci furono più vittime nel 1966, quando all’università del Texas ad Austin un cecchino salì su una terrazza e iniziò a sparare sugli studenti, facendo 15 morti e 31 feriti? E nella categoria «sparatorie in chiesa», la strage di domenica è più o meno grave di quella di Charleston, in South Carolina, nel 2015? E ancora: quello di due giorni fa è il peggiore omicidio di massa del 2017, o ci furono più vittime un mese fa a Las Vegas, nell’attacco terroristico contro i giovani che assistevano a un concerto?
Le risposte sono semplici: con 26 morti accertati quello di domenica è stato il peggior attentato nella storia del Texas e il peggiore avvenuto in una chiesa, benché abbia fatto meno vittime di quante ce ne siano state a Las Vegas lo scorso 1 ottobre (58). I media americani sembrano specializzarsi in questa macabra contabilità, che assomiglia più alle statistiche del baseball che a un dibattito sul problema della violenza negli Stati Uniti.
Poche cose mostrano la paralisi del sistema politico americano, l’incapacità di decidere, quanto la questione delle armi. Un Congresso corrotto e prigioniero dei finanziamenti delle lobby rifiuta da decenni di prendere misure concrete per arrestare la circolazione di armi da guerra, un presidente-clown attribuisce le stragi dei suprematisti bianchi alla «malattia mentale» mentre parla di «male assoluto» quando il fondamentalismo islamico è coinvolto come nel caso di New York, pochi giorni fa.
Una Corte suprema a maggioranza repubblicana porta la pesantissima responsabilità di aver sostanzialmente cancellato ogni significativa limitazione al possesso di armi da fuoco da parte dei privati con una sentenza del 2008 (District of Columbia v. Heller) che dava una lettura estensiva (e storicamente infondata) del II° emendamento della Costituzione, che garantisce ai cittadini il diritto di tenere armi, in quanto necessarie per il servizio nella milizia civica.
Oggi la milizia non esiste più, ma per la Corte il diritto di tenere un carro armato in garage deve essere tutelato.
Anche nei fatti di domenica lo strumento è stata un’arma da guerra, un fucile semiautomatico Ruger del tipo in dotazione all’esercito americano. L’assassino, del resto, è un ex militare: si era arruolato nell’aviazione ma nel 2012 era stato mandato davanti alla Corte marziale per aver usato violenza nei confronti di moglie e figlio: dopo 12 mesi di prigione militare era stato congedato con disonore.
La chiesa dove Kelley si è messo a sparare non era una congregazione afroamericana (come quella di Charleston, colpita da Dylan Roof nel 2015 «per provocare una guerra razziale») e non sono emerse affiliazioni politiche significative da parte dell’assassino. Siamo quindi di fronte alla nuova “normalità” americana: stragi nelle grandi città e nelle piccole comunità (Sutherland Springs ha appena 400 abitanti), stragi politicamente motivate e stragi senza ragione, assassini che sono studenti, ex militari, o perfino pensionati benestanti come Stephen Paddock, che il 1° ottobre scorso ha freddamente aperto il fuoco sul pubblico di un concerto, facendo 58 morti e circa 500 feriti. Lo spettacolo di una società che sembra in preda a una guerra civile strisciante, ma senza fronti definiti, dove rimane solo una violenza incomprensibile, dove alla mortale associazione tra virilità e porto delle armi si aggiunge una disponibilità di strumenti di morte che non ha eguali nel mondo industrializzato.
Gli Stati Uniti hanno più armi in circolazione tra i privati di tutti gli altri paesi industrializzati messi insieme ed è in Texas, in Arizona, in Florida che i cartelli della droga messicani vanno a rifornirsi di pistole, fucili e munizioni.
FONTE: Fabrizio Tonello, IL MANIFESTO
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