by Sebastiano Canetta | 18 Novembre 2017 9:46
«Siamo lo spirito di Parigi». Così la ministra tedesca dell’ambiente Barbara Hendricks (Spd) ha celebrato ieri la chiusura ufficiale della Cop23 a Bonn.
Per il governo Merkel, dunque, «missione compiuta nella redazione dei testi per l’accordo sul clima» e, soprattutto, un tema da congelare fino alla prossima conferenza di Katowice, dove è stata rimandata la questione più spinosa: il capitolo finanziario.
In attesa di definire da dove, come e quando arriverà il denaro necessario, dovranno bastare gli impegni incisi nel documento finale approvato dai delegati dei 196 Paesi.
Spicca l’uscita dallo sviluppo delle energie fossili entro il decennio – primo metodo per raggiungere l’obiettivo della riduzione di Co2 – e soprattutto l’attivazione del «Meccanismo internazionale delle perdite e dei danni di Varsavia» che segna il via libera definitivo agli aiuti per gli Stati colpiti dai cambiamenti climatici (grazie allo stanziamento extra dal bilancio di 100 miliardi di dollari già previsto). Positivo anche l’annuncio della «Piattaforma delle comunità locali e dei popoli indigeni», così come la ricezione dei piani sull’agricoltura nei Paesi in via di sviluppo suggeriti dalla Fao.
Eppure non basta a festeggiare la Cop23 come punto di svolta né come esordio della politica ambientale global autonoma dagli Usa. Tanto che nel documento conclusivo emerge la richiesta al segretario Onu Antonio Guterres di preoccuparsi della reale messa in pratica delle azioni da parte degli Stati membri: dall’effettivo svolgimento dei compiti assegnati alla distribuzione trasparente dei finanziamenti, anche se la questione verrà affrontata in dettaglio solo nell’autunno 2018 in Polonia.
A denunciare la «soluzione morbida partorita a Bonn» è anzitutto il leader mondiale dell’Action Aid sull’ambiente Harjeet Singh, per nulla soddisfatto dall’accordo su «Loss and Damage» firmato dal premier fijiano Frank Bainimarama, presidente della Cop ospitata dalla Germania.
«Con lui le comunità vulnerabili sono finalmente finite sotto i riflettori. Ma le parole non si sono ancora tradotte nel supporto di cui hanno bisogno», precisa Singh. Accusa Ue, Canada e Australia di avere impedito di affrontare il tema dei finanziamenti: «Le nazioni in via di sviluppo avevano chiesto l’inclusione del punto all’ordine del giorno. Si sono dovuti accontentare della promessa di un “dialogo di esperti”». Senza contare che sia Bruxelles che Canberra hanno sostenuto che non tutti i disastri sono causati dalla mutazione climatica. L’ennesima a prova che i “Grandi” della Terra non sono ancora pronti a offrire speranza alle singole persone».
Di fatto, il futuro dei “Piccoli” resta appeso soprattutto alla Ocean Pathway: l’iniziativa di Fiji e Svezia per una partnership che tuteli i mari del Sud. Hanno già aderito Cile, Isole Cook, Repubblica Dominicana, Polinesia francese, Portogallo, Kiribati, Isole Marshall, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Palau, Samoa e Seychelles
FONTE: Sebastiano Canetta, IL MANIFESTO[1]
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