Messico. La rivoluzione indigena di Marichuy: «Voglio dignità»

by Andrea Cegna | 10 Novembre 2017 10:55

Loading

Le servono 800mila firme, ma si firma solo con un tablet, che costa il triplo di uno stipendio. La denuncia di 52 intellettuali

SAN CRISTÓBAL. Il viaggio di Marichuy alla ricerca delle firme necessarie per trasformare in realtà la candidatura della portavoce del Congresso Indigeno di Governo continua senza pause, in Messico. María de Jesús Patricio Martínez, indigena Nahua dello stato di Jalisco, è arrivata poco dopo le 17 a San Cristobal de Las Casas.

Piazza della Rivoluzione si riempie lentamente. Il palco dove salgono i rappresentanti del Cni, in stragrande maggioranza donne, vede alla sue spalle la cattedrale dove si trova la tomba di Samuel Ruiz, e a destra l’ex palazzo del municipio dell’antica capitale del Chiapas, quello stesso palazzo occupato dagli Zapatisti all’alba del 1 gennaio del 1994.

Per l’occassione sono arrivate in città centinaia di donne dalle diverse comunità indigene dei Los Altos. Ognuna di loro veste con gli abiti tradizionali, molte di loro non parlano nemmeno spagnolo ma hanno voluto essere presenti.

Donne indigene di diverse età, senza uomini ad accompagnarle, con gli occhi lucidi per l’emozione aspettano prima e ascoltano poi in silenzio le parole di una donna che per loro è speranza e orgoglio.

Essere povere, indigene e donne in Messico è una condanna, una firma indelebile sull’essere soggetto escluso da ogni diritti e possibilità. O meglio era così, oggi è diverso.

Solo dieci anni fa una foto di gruppo come quelle scattate mercoledì in piazza della Rivolzione sarebbe stato un sogno o un fotomontaggio in questo angolo di terra. Oggi, quella foto è un pezzo di realtà, mostra il lavoro coraggioso e continuo delle donne indigene che lottano per la loro emancipazione e riconoscimento, partendo dalle proprie famiglie, passando per le loro comunità e con Marichuy provare ad arrivare al più alto livello possibile: la presidenza della repubblica. Sette interventi anticipano le parole di Marichuy che arrivano quando a illuminarla non è più la luce del sole ma un faro bianco.

Le sette voci che precedono la candidata indigena parlano spagnolo ma soprattutto gli idiomi indigeni delle comunità da cui provengono le quattro donne e i tre uomini che si alternano al microfono. Tutte e tutti devono capire, soprattutto le donne indigene.

Marichuy prima spiega al pubblico perché si è deciso di procedere alla candidatura, poi ha detto: «Andremo ad ascoltare i diversi villaggi indigeni in ogni luogo dove passeremo. Allo stesso tempo faremo sentire la nostra voce e la nostra proposta: noi vogliamo la vita e vogliamo una vita degna per tutte e tutti in Messico e nel mondo».

Ha anche ribadito che la sfida e il percorso intrapreso dal Cni con il supporto dell’Ezln vede in lei solo la portavoce di un Consiglio Indigeno di Governo e che nulla finisce nel 2018 con le elezioni.

Questa è solo una tappa. Il cambiamento non arriverà mai dall’alto e l’organizzazione delle popolazioni, degli uomini e delle donne è l’unico strumento reale per opporre un’alternativa al dominio del capitalismo e della politica asservita agli interessi economici.

Mentre dal palco si alternavano i diversi interventi i volontari in appoggio alla candidata si prodigavano nello smaltire una lunga coda formatasi per dare la propria firma a sostegno della candidatura indipendente indigena. Devono essere raccolte oltre 800mila firme, circa 50mila in 17 diversi stati sui 33 della repubblica messicana, entro febbraio, affinché Marichuy sia a tutti gli effetti votabile.

Per firmare occorre utilizzare una app che funziona solo su cellulari e tablet di ultima generazione. Proprio questo piccolo particolare racconta di un sistema classista, in cui indigene e indigeni (oltre che poveri e povere) sono esclusi. Per questo martedì scorso a Città del Messico 52 intellettuali, tra cui Pablo González Casanova, Francisco Toledo, Juan Villoro, Oscar Chávez, Eduardo Matos Moctezuma, Bárbara Zamora, Gilberto López y Rivas, Mardonio Carballo, Luis de Tavira, e Paul Leduc hanno denunciato, in una conferenza stampa, che il costo medio dei dispositivi adatti alla raccolta delle firme è di 5mila pesos, il triplo dello stipendio mensile dell’81.7% degli assunti nel paese.

I 52 hanno anche denunciato i lunghi tempi necessari per inserire le firme, fino a 20 minuti a firma. Juan Villoro ha chiuso come portavoce dell’associazione di accademici e artisti in supporto alla candidatura indigena dicendo: «Marichuy è nata come candidatura contro la discriminazione e la prima cosa che incontra nel suo percorso è discriminazione».

FONTE: Andrea Cegna, IL MANIFESTO[1]

Post Views: 294
Endnotes:
  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/11/95366/