Turchia, quel bacio di Kadri Gürsel alla vita dopo la prigione

by Monica Ricci Sargentini | 16 Ottobre 2017 10:44

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Un bacio appassionato alla moglie dopo 330 giorni passati nella prigione di Silivri a Istanbul. La guardia che distoglie lo sguardo divertita. La foto, scattata dal fotoreporter Yasin Akgul per l’ Afp , è diventata in un attimo il simbolo della Turchia di oggi. L’ex detenuto è Kadri Gürsel, 56 anni, editorialista di spicco del quotidiano di opposizione Cumhuriyet e membro dell’Istituto Internazionale della stampa, finito in prigione, insieme ad altri 17 dipendenti del giornale, con l’accusa di sostenere senza esserne membro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), il Partito di Liberazione Popolare Rivoluzionario (Dhkp-c) e la presunta rete terroristica Feto, guidata dall’imam in esilio negli Stati Uniti Fethullah Gülen e considerata responsabile del golpe fallito del 15 luglio 2016. Il giornalista, che in passato ha lavorato per l’ Afp e per il quotidiano Milliyet , respinge con sdegno ogni addebito ma rischia fino a 15 anni di carcere.

Quel bacio diventa così una dimostrazione non voluta di libertà: «Non era un gesto politico — ha spiegato Gürsel — ma è stato interpretato come un atto di disobbedienza alla cultura politica, all’invasione della sfera pubblica nel privato e all’avanzare del conservatorismo religioso». La moglie Nazire ha battezzato la foto: «Un bacio alla vita».

Quando l’editorialista è stato scarcerato, il 26 settembre, una piccola folla lo aspettava fuori dal tribunale mostrando cartelli a favore della libertà di stampa. Lui ora è libero ma altri sono ancora in prigione. Tra questi l’amministratore delegato di Cumhuriyet Akin Atalay, il direttore Murat Sabuncu e il giornalista Kemal Aydogdu oltre ai reporter investigativi Emre Iper e Ahmet Sik, quest’ultimo paradossalmente nel 2011 aveva scritto un libro critico su Gülen dal titolo «L’esercito dell’Imam» e per questo aveva anche subito un processo.

«Le accuse contro di noi non hanno alcun fondamento — ha detto Gürsel — io tengo la mia rabbia sotto controllo perché non voglio diventarne prigioniero. Ma una persona che è stata 11 mesi in prigione dovrebbe essere arrabbiata. E io sono molto arrabbiato».

In prigione c’è anche lo scrittore e giornalista Ahmet Altan che, il 18 settembre, ha pubblicato «Ritratto dell’atto di accusa come pornografia giudiziaria» in cui scrive una lettera immaginaria al giudice incaricato del suo processo: «Vostro onore — si legge nel libro — il misero surrogato di atto di accusa presentato contro di me, privo non solo di intelligenza ma anche di rispetto della legge, è troppo debole per sostenere il peso immenso della sentenza di ergastolo con applicazione delle relative aggravanti richieste dal pubblico ministero e non merita una difesa seria. Tuttavia, leggere le bugie sul mio conto mi ha aiutato a comprendere meglio a quale massacro della legalità siano state sottoposte le persone imprigionate a partire dal 15 luglio». E ancora: «L’imputazione di golpismo nei nostri riguardi si basa sulla seguente asserzione: si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di Stato. Come può il fatto di “conoscere” qualcuno essere accettato come prova di un crimine?», è una delle domande che pone Ahmet.

Secondo il sito per il giornalismo indipendente P24 ci sono 171 giornalisti nelle carceri turche, più che in qualsiasi altro Paese al mondo. Dal fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 più di 50 mila persone sono state arrestate con l’accusa di far parte di Feto e 150 mila hanno perso il posto di lavoro. Gülen ha sempre negato ogni addebito ma Ankara reclama a gran voce la sua estradizione.

FONTE: Monica Ricci Sargentini, CORRIERE DELLA SERA[1]

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  1. CORRIERE DELLA SERA: http://www.corriere.it/

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