Scandalo tuttifrutti nella Repubblica dominicana

Scandalo tuttifrutti nella Repubblica dominicana

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Punta Catalina. C’è di tutto dietro la costruzione della mega centrale a carbone da parte della multinazionale Odebrecht in Repubblica dominicana, contro cui si battono gli ambientalisti della coalizione Marcha Verde, persino interessi di aziende italiane

Un nutrito cordone di polizia blocca il serpentone di automobili e persone con magliette, cappellini e bandiere verdi, che così si arresta a poco più di un chilometro dal cantiere della centrale a carbone di Punta Catalina. «Più avanti non potete andare», urla nel megafono l’ufficiale, volto congestionato dalla caldo. Gli attivisti della Marcha Verde non si danno per vinti e rimangono ad ascoltare i discorsi dei leader della protesta, le cui parole si confondono con le note dei brani dell’immancabile Salsa caraibica. E a un certo punto si ode anche una versione anti-corruzione del tormentone estivo Despacito.

Siamo nei pressi di Banì, la cittadina che diede i natali al liberatore di Cuba Máximo Gómez, a una cinquantina di chilometri da Santo Domingo. È dallo scorso gennaio che in Repubblica Dominicana si tengono almeno due manifestazioni al mese promosse dalla coalizione di realtà della società civile denominata Marcha Verde. Decine di migliaia di persone scendono in piazza per gridare la loro indignazione contro il governo e il suo grande partner d’affari, la Odebrecht.

LA POTENTE multinazionale brasiliana del settore delle costruzioni si è macchiata di corruzione in 12 paesi di America Latina e Africa e proprio in Repubblica Dominicana aveva spostato la sua centrale di smistamento delle mazzette quando in Brasile i magistrati si erano accorti che qualcosa non andava nei conti societari. Si era all’alba di Lava Jato, una delle più grosse inchieste sulla corruzione della storia, che ha travolto la politica brasiliana a partire dagli ex presidenti Lula Da Silva e Dilma Rousseff. Oltre all’Odebrecht, anche il gigante petrolifero Petrobras e l’italo-argentina Techint sono pesantemente coinvolte in tutta la vicenda.

IL PROGETTO SIMBOLO delle tangenti dominicane è un impianto a carbone che, per la serie oltre il danno la beffa, porta con sé il «classico» carico di devastanti impatti ambientali di questo tipo di opere. Nonostante la Repubblica Dominicana abbia appena ratificato l’Accordo di Parigi, Punta Catalina produrrà almeno 6 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, incrementando le emissioni del Paese di ben il 20 per cento. La tecnologia impiegata è obsoleta, tanto che, secondo le normative vigenti, in Europa non sarebbe possibile costruire un impianto del genere.

LA CENTRALE sorge sul un tratto di costa, in una zona di pregio naturalistico. Nei dintorni del cantiere non si contano le coltivazioni di canna da zucchero, caffè e mango, quest’ultima così pregiata che con le emissioni è pressoché certo che perderà certificazione speciale. Altro colmo dei colmi, il governo non è proprietario dell’appezzamento di terreno necessario per la realizzazione dell’opera.

Attualmente è infatti in essere un contratto di «enfiteusi» con il gruppo Vicini, potentissima famiglia di origini italiane che in Repubblica Dominicana svolge un ruolo fondamentale in tutti i settori dell’economia. E con cui il governo dovrà prima o poi negoziare un prezzo d’acquisto, anche perché le obbligazioni, che ha emesso lo scorso luglio sui mercati internazionali per coprire il gap di fondi non arrivati dal Brasile, saranno meno traballanti se almeno la terra su cui sorge l’impianto diventerà dello Stato.

IL CARBONE dovrebbe arrivare dalla Colombia. Forse proprio quello macchiato del sangue di sindacalisti e semplici cittadini uccisi dalle unità paramilitari per «agevolare» il business dell’estrazione nella regione del Cesar, da dove pochi mesi fa l’Enel ha cessato di comprare la polvere nera per le sue centrali.

Enrique de Leon, il portavoce del Comitato nazionale sui cambiamenti climatici, una delle mille anime della Marcha Verde, non ha dubbi. «È un progetto che ha enormi ricadute ambientali e contraddice in pieno gli impegni presi dal nostro Paese all’ultima Cop a Parigi. Poi ci sono gli aspetti legati alla corruzione, noi vogliamo che l’Odebrecht esca da Punta Catalina».

LA COMPAGNIA brasiliana, nell’ambito di un processo intentatogli negli Usa all’inizio del 2017, ha patteggiato una sanzione pecuniaria di 3,5 miliardi di dollari dopo aver ammesso il pagamento di 788 milioni di dollari in tangenti in giro per il mondo. Se si eccettua il Venezuela, la Repubblica Dominicana è il Paese dove sono state distribuite più mazzette, 92 milioni di dollari fra il 2001 e il 2014. Il tutto a fronte di contratti dal valore di 5 miliardi di dollari, quasi la metà riguardanti l’appalto della mega-centrale di Punta Catalina.

Per la realizzazione dell’opera, nel 2014 la compagnia brasiliana ha costituito un consorzio con la locale Estrella e l’italiana Marie Tecnimont. Ma italiana, Unicredit, è anche una delle cinque banche (le altre sono Deutsche Bank, Ing, Société Générale e Santander) che hanno accordato prestiti per 600 milioni di dollari, così come è stata l’agenzia di credito all’export nostrana, la Sace, a garantire questa operazione finanziaria. Gli istituti di credito però hanno sborsato solo la prima metà del denaro, preferendo congelare la seconda in attesa di un audit indipendente che accerti se c’è stata veramente corruzione e se sia dunque meglio ritirarsi dall’operazione.

SULLA CARTA, qualora le banche dovessero fare un passo indietro, il saldo spetterebbe alla Sace, che poi si rivarrebbe sul governo dominicano, il quale già si è trovato a dover far fronte al mancato contributo della Bndes, la banca di sviluppo brasiliana anch’essa immischiata nello scandalo Lava Jato. Sebbene il progetto «chiavi in mano» inizialmente prevedesse che l’80% dei fondi fosse reperito dal consorzio costruttore, al momento l’esecutivo del Paese caraibico ha già stanziato un miliardo e 200 milioni di dollari di soldi pubblici.

Cifra destinata ad aumentare. «Il calcolo dei costi è stato fatto in maniera inadeguata, c’è il serio rischio che si possa arrivare a 3 miliardi di dollari. Un conto salato per i cittadini, che già stanno pagando bollette più alte del 30 % per finanziare Punta Catalina», ci dice Antonio Almonte, esperto di questioni energetiche ed esponente del Partido revolucionario moderno.

LE PREOCCUPAZIONI di Almonte ci sono state confermate il giorno dopo la nostra intervista da un articolo apparso sul quotidiano il Listin Diario, in cui Odebrecht pretende 700 milioni di dollari «aggiuntivi» per un supposto aumento dei costi. Una evidente sconfessione del rapporto indipendente redatto da un gruppo di «notabili» su richiesta del governo.

PERSIO MALDONADO, direttore del quotidiano El Nuovo Diario e presidente dell’Asociación Dominicana de Diarios, era tra i notabili che hanno siglato il rapporto finale. «Io non posso dire se c’è stata o non c’è stata corruzione – ci risponde – però posso ribadire quanto segnalato nelle conclusioni del nostro lavoro, ovvero che è stata rispettata la legge esistente per il processo di aggiudicazione della licenza e che non c’è stato alcun aumento dei costi».

Il giornalista ostenta certezze anche sullo stato dell’opera – «è completa per più del 70 %» – e sui tempi – «si chiude tutto entro gli ultimi mesi del 2018». Su quest’ultimo punto già Rafael Abreu, presidente dell’associazione sindacale Cnus, ci aveva dato indicazioni discordanti.

Riferendoci che il cantiere impiega 3.300 operai, in buona parte locali, Abreu non ha lesinato critiche. «I nostri iscritti ci raccontano che l’opera sarà completata solo nel 2019 e si lamentano della bassa qualità dei materiali utilizzati. Ci sono stati vari incidenti, due persone sono morte e altre rimaste ferite».

RITARDI, sensibili aumenti dei costi e corruzione. Eppure il governo appare quasi «costretto» a difendere l’Odebrecht. Una posizione ambigua che getta ombre sulle relazioni pericolose dello stesso presidente Danilo Medina. A quanto si sa, i magistrati dominicani avrebbero acquisito i faldoni dell’inchiesta brasiliana Lava Jato che riguardano Punta Catalina.

Mentre il procuratore generale della Repubblica Dominicana ha segnalato che la Odebrecht avrebbe pagato due parlamentari per aggiudicarsi l’appalto miliardario del progetto. Gli stessi magistrati stanno investigando sull’imprenditore Angel Rondon, dal 2001 uomo della multinazionale brasiliana a Santo Domingo.

RONDON avrebbe fatto da intermediario pagando tangenti a funzionari governativi per l’aggiudicazione dell’appalto di Punta Catalina, oltre ad aver costituito una miriade di società offshore, da Panama alle Isole Vergini Britanniche, da dove sono passati milioni di dollari «sporchi». Nelle carte brasiliane si parlerebbe esplicitamente di corruzione per l’aggiudicazione dell’appalto della centrale.

Gli attivisti di Marcha Verde non sono molto ottimisti sull’esito dell’inchiesta ma attendono comunque novità entro la fine dell’anno.

Re:Common

FONTE: Luca Manes, IL MANIFESTO



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