Rapporto Ocse. Italia paese tra i più vecchi, giovani sempre più precari
Le ricette dell’Ocse ripropongono alcune delle cause che hanno prodotto le diseguaglianze che lamenta: l’aumento età pensionabile, il taglio della spesa pubblica e l’alternanza scuola-lavoro
Allungare ancora l’età pensionabile, tagliare in modo sostanziale la spesa pubblica, potenziare il sistema dell’alternanza scuola-lavoro e quello delle «politiche attive del lavoro»: se il disoccupato non accetta un lavoro qualsiasi, perde il magro sussidio.
Queste sono alcune delle soluzioni proposte al prossimo governo dal rapporto Ocse «Preventing Ageing Unequality» per diminuire le diseguaglianze di reddito tra lavoratori giovani e anziani e quelle di genere tra uomini e donne cresciute a dismisura in Italia. Un cortocircuito perfetto. Alcune delle cause che hanno prodotto le diseguaglianze sono proposte come i rimedi alle stesse. Il rapporto Ocse non spiega la molteplicità delle cause reali di questa situazione. Il suo approccio «generazionale» alle diseguaglianze è a dir poco riduttivo dato che tralascia le altre cause che le producono: il rapporto capitale/lavoro, la natura oligarchica del capitale, la «lotta di classe dall’alto», le politiche fiscali e l’austerità, ad esempio.
Si dice che l’Italia avrà nel 2050 74 persone su 100 in pensione e quelle che lavoreranno saranno tutte precarie. Non saranno cioè in grado di garantire la sostenibilità del sistema previdenziale, né saranno in grado di mantenersi e persino di riprodursi. E, oltretutto, saranno obbligate a lavorare fino a 75 anni (Boeri, presidente dell’Inps, dixit). A causa delle riforme delle pensioni – tra l’altro sostenute anche dall’Ocse – l’occupazione dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni è aumentata di 23 punti dal 2000 al 2016 a fronte dell’aumento di un punto nella fascia tra i 25 e i 54. Quella travolta dalle leggi sulla precarietà, a cominciare dal «pacchetto Treu» voluto dal governo di «centro-sinistra» di Prodi nel 1997. Tra l’altro, sostenute anche dall’Ocse.
Non va nemmeno dimenticato il contributo del Jobs Act di Renzi – lo stesso che il segretario dell’Ocse Gurria ha salutato come una «pietra miliare» delle «riforme» necessarie all’Italia. Da tutti gli indicatori risulta un aumento dell’occupazione, precaria, dei lavoratori over 50 ai danni dei giovani, e in particolare dei 35-49enni che proprio «giovani» non sono.
Dal punto di vista dei salari, la diseguaglianza è drammatica. Da metà degli anni Ottanta il reddito della popoazione attiva tra i 60-64 anni è cresciuto del 25%, quello tra i 30-34 anni solo del 13%. Il tasso di povertà dei «giovani» è schizzato verso l’alto. Ancora nel 2012, un’era geologica fa, era del 16% contro il 9% degli «anziani». Tale disparità salariale si tradurrà immediatamente in una disparità previdenziale a causa della riforma Dini e della successiva Fornero. Chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996 – dunque i «giovani» – si vedrà calcolare la «pensione di vecchiaia» solo con il metodo di calcolo contributivo a capitalizzazione simulata sulla crescita del Pil che sappiamo essere perlomeno aleatoria, come i guadagni da lavoro precario. Per l’Ocse il trasferimento della povertà da una condizione all’altra sarà del 95%, uno dei più elevati dei paesi che afferiscono a questa organizzazione con sede a Parigi. In pratica si resterà poveri a vita: precari si è oggi, molto più precari – perché più deboli e vulnerabili – si sarà domani.
Sempre ammesso che poi tutti questi precari a vita trovino un lavoro retribuito, con i contributi regolarmente versati. Con il diabolico sistema della precarietà elaborato negli ultimi 25 anni, con la crisi produttiva e quella degli investimenti non è affatto detto che questo «lavoro» ci sarà. E, se ce ne sarà uno, sarà sempre meno retribuito e sempre più intermittente. Nel rapporto il problema è avvertito quando è fatto un accenno alla necessità di tenere le persone più a lungo al lavoro, in particolare quelle «meno istruite»: «ma ci dovrebbero essere i posti di lavoro in grado di assorbirli». Su questo punto anche l’Ocse sembra avere qualche dubbio.
Per contrastare una situazione così drammatica, già oggi, i governi da Renzi in poi hanno pensato di pagare le imprese che assumono, sgravandole del peso contributivo. Prima i 18 miliardi del Jobs Act (quelli lodati ieri dal presidente della Bce Mario Draghi), poi la mini-decontribuzione prevista dalla prossima manovra, fino agli sgravi per chi ha fatto l’alternanza scuola-lavoro o un apprendistato. E Renzi, in campagna elettorale, ha già promesso il «Jobs Act 2». Invece di andare alla radice dei problemi, si preferisce aggravare il problema, spesso con soluzioni illogiche.
FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO
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