No G7 nella Torino che paga la crisi

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TORINO. Di fronte alla lapide di marmo rosa che commemora il partigiano Domenico Petruzza, fucilato dai nazifascisti nel 1944, il lancio di alcuni potenti petardi – e la relativa risposta a suon di lacrimogeni – dà inizio al clou della lunga manifestazione anti G7.

Prima del contatto, durante il quale alcuni manifestanti si sono scagliati contro il muro di polizia e carabinieri, venendo respinti a manganellate, un corteo composto da circa quattromila persone aveva camminato per chilometri: dalla periferia torinese del quartiere Vallette al centro di Venaria, cittadina che da tempo vive una nuova primavera grazie alla ristrutturazione della reggia che, fino a pochi anni fa, ospitava i muli degli alpini dove oggi si accomodano i ministri.

Al di là della barriera protettiva alzata dalle forze dell’ordine, fuori scala, i «sette grandi» portavano a termine una via crucis spacciata come «vertice»: una sorta di simposio, volto a far chiacchierare in un bel posto ministri e burocrati che dovrebbero essere gli esperti dell’industria, del turismo e della scienza.

Il comunicato finale è una lista di buoni propositi, in cui si auspica di «adottare un approccio inclusivo al mercato del lavoro, con particolare attenzione ai più deboli delle nostre società, per assicurare che nessuno sia lasciato indietro».

Poi, dato che anche nelle sale dorate dove sono barricati giungono gli echi delle esplosioni che ci sono per strada, qualche riga viene dedicata ai gruppi sociali particolarmente esposti alla perdita di un impiego e alla riduzione dei salari», come disabili, donne, giovani, lavoratori maturi «o meno qualificati». Il temino è svolto.

Giuliano Poletti, al termine del «vertice» non esita a lisciare il pelo della piazza: «Ognuno può sostenere le proprie tesi. La democrazia prevede posizioni diverse che si esprimono dentro la legge con il rispetto delle persone e delle cose. Non tutti i giovani stanno protestando, dovremmo evitare di generalizzare. Detto questo, hanno delle ragioni per sollevare problemi che conosciamo: la disoccupazione giovanile è troppo alta e dobbiamo agire per ridurla. Noi abbiamo ottenuto qualche risultato non ancora sufficiente e interverremo ancora nella prossima legge di bilancio».

Troppo poco per i manifestanti che urlano nei suoi confronti ogni tipo di insulto, dopo averne nuovamente ghigliottinato il fantoccio. Il corteo è partito da largo Toscana, uno dei «crateri» della disoccupazione torinese: palazzoni un tempo abitati dalle classe operaia che lavorava nelle fonderie poco lontane, oggi trasformate in centri commerciali semi deserti.

Quartieri rossi, conflittuali, oggi ripiegati su se stessi, in attesa di un lavoretto qualsiasi per i figli che non trovano un’occupazione. Un lungo cammino quello del corteo, almeno otto chilometri, alla volta della Versailles dei Savoia, che ha attraversato quartieri che non vedevano una manifestazione dagli anni ’70.

Vie dove la crisi picchia senza pietà, punteggiate di cartelli vendesi, sia per i negozi – una vera strage – che per gli appartamenti. Dai balconi si affacciano, armati di telefono, centinaia di torinesi che guardano, che non partecipano ma, in fondo, non condannano nemmeno.

In un piccolo slargo di Venaria intitolato al partigiano Aldo Canale, fucilato nel 1944, un piccolo gruppo di donne applaude, mostra il pugno chiuso e urla «bravi!».

Dei quattromila un grosso blocco è dell’autonomia, capeggiata da Askatasuna. Poi Rifondazione, i Cub, Cobas, lavoratori della logistica, alcuni migranti, Studenti Indipendenti, alcuni attivisti del M5s compresi dei consiglieri comunali.

Irene arriva da Firenze, è giovane e fa la ricercatrice universitaria: «Che ci facciamo qui oggi? Che ci facciamo come persone se la nostra voce non riesce a raggiungere nessuno che la ascolti? Cosa vuol dire che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando invece è fondata su macerie di indifferenza?».

Ezio Locatelli, segretario provinciale di Rifondazione: «I veri distruttori non sono coloro che ancora hanno il coraggio di protestare. Sono i ministri e gli speculatori che perseverano in un politica economica distruttiva, fatta di tante belle parole».

L’ultimo petardone e il solito lancio di lacrimogeni mettono fine al vertice e al pomeriggio di «tensione».

FONTE: Maurizio Pagliassotti, IL MANIFESTO


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