Gli Usa abbandonano l’Unesco: «Troppi pregiudizi anti-israeliani»

by Marina Catucci | 13 Ottobre 2017 9:27

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Sgradita la sempre migliore accoglienza riservata dall’agenzia Onu alla Palestina

Il Dipartimento di Stato americano, citando come motivazione dei “pregiudizi anti Israele”, ha dichiarato che gli Stati Uniti il 31 dicembre 2018 usciranno dall’Unesco, l’agenzia dell’ONU con sede a Parigi che si occupa di promuovere la pace tra le nazioni attraverso la scienza e la cultura.

Gli Usa, ha specificato la portavoce del Dipartimento di Stato americano, Heather Nauert , diventeranno osservatori permanenti dell’agenzia, ma senza parteciparvi, in quanto l’Unesco “ha bisogno di essere essere riformata”.

Questa posizione dell’amministrazione Trump segue un raffreddamento dei rapporti che risale al 2011, quando gli Usa, a seguito del voto con cui la Palestina è stata ammessa come stato membro, decise di non finanziare più l’Unesco, ma a portare alla rottura odierna sono state delle decisioni del Luglio scorso, quando l’Unesco ha negato la sovranità di Israele sulla città di Gerusalemme vecchia e Gerusalemme est.

Durante il vertice di Cracovia l’agenzia aveva dichiarato Israele una “potenza occupante” ed aveva riconosciuto quale patrimonio dell’umanità il sito della tomba dei Patriarchi a Hebron, definito tuttavia sito palestinese, decisione che non era piaciuta per niente al premier israeliano Benjamin Netanyahu che tuttavia, a differenza dagli Stati Uniti che lo appoggiano, è rimasto all’interno dell’Unesco.

Stando a quanto scritto da Foreign Policy, la motivazione principale della decisione statunitense, è la volontà degli Usa di risparmiare, in quanto anche dopo avere abolito i finanziamenti, avevano comunque dovuto rispondere alle richieste dell’Unesco su i fondi dovuti, che in sei anni sono ammontati ad oltre 500 milioni di dollari.

L’Unesco ha definito questa scelta americana “una perdita per la famiglia delle Nazioni Unite e per il multilateralismo”, e qua c’è proprio uno dei punti chiave in quanto questa decisione è in linea con la piega isolazionista e protezionista dell’amministrazione Trump, che va nella direzione opposta a quella dell’apertura e della collaborazione auspicata dall’Onu.

La “grande America” di Trump è un concetto novecentesco che prevede una guerra più o meno fredda con una qualche potenza esterna dipinta come naturalmente demoniaca, e un isolamento economico senza concessioni.

Questa visione è confermata in queste stesse ore dall’arrivo a Washington del premier canadese Justin Trudeau, in Usa per partecipare al quarto round di trattative sul Nafta, l’accordo nordamericano per il libero scambio, la cui sorte è messa in dubbio da Trump; “Vediamo, è possibile che non arriveremo a un accordo oppure sì”, ha detto Trump. Alla domanda di un giornalista sulla possibilità di un accordo soltanto con il Canada il presidente statunitense ha risposto di sì.

Tra le richieste americane ci sono nuove clausole per inserire quote minime sui prodotti di fattura statunitense e l’introduzione di un termine di chiusura entro i prossimi 5 anni, se uno Stato non dovesse più ritenere utile restare nell’accordo.

La riunione ha in agenda anche il tema spinoso delle esportazioni agricole messicane verso gli Usa, oltre al probabile braccio di ferro con il Canada. La delegazione di negoziatori Usa cercherà l’affondo sui regolamenti del settore dei latticini canadesi, tutelato ma mai entrato a far parte degli accordi di libero scambio.

FONTE: Marina Catucci, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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