Dopo le elezioni. Una disunione austro ungarica

by Marco Bascetta | 17 Ottobre 2017 10:17

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E’ a sinistra che la narrazione nazionalista produce i maggiori danni: è evidente come in alcuni settori della sinistra la «priorità nazionale» contro il dumping salariale e l’impoverimento del welfare imputati all’immigrazione abbia fatto breccia

L’Unione europea si è temporaneamente sospesa dalla storia del Vecchio continente. Forse in attesa di un nuovo governo che da Berlino indichi la direzione di marcia, forse per l’imbarazzante percezione di un’impotenza pressoché assoluta.

Senza avere ancora smosso di un millimetro il cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia) che oltre ad avversare l’idea stessa di una politica migratoria europea coltiva una propria inquietante interpretazione della democrazia, la Ue si ritrova l’Austria con un risultato elettorale che muove proprio in quella direzione.

Ma è difficile immaginare che reagirà con la rumorosa indignazione con cui accolse l’ingresso di Haider nel governo di Vienna tra il 2000 e il 2002.

Del resto il Fpoe di Heinz Christian Strache ha puntato tutto su un profilo di normalità, ripulendo l’immagine del partito dal folklore estremista con cui in passato si dilettavano i seguaci di Haider.

E poi, tutti i grandi paesi europei devono vedersela con una destra crescente, e dunque maneggiarne con cura suggestioni e argomenti per poterli includere nel proprio spazio politico. Cosa che il popolare Sebastian Kurz ha fatto con il massimo zelo e indubbio successo.

Silenzio europeo anche sul fronte spagnolo, laddove è sempre più chiaro che il governo di Mariano Rajoy non è disponibile ad alcuna forma di dialogo e punta esclusivamente alla capitolazione di Barcellona. Infischiandone delle ferite politiche, culturali, sociali che questo esito provocherebbe con imprevedibili conseguenze. Con la incredibile complicità dei socialisti, disposti a sacrificare tutto al feticcio dello stato nazionale.

Il fatto è che in questo momento l’emergenza economica è grosso modo sotto controllo, la disciplina dei conti regge, la rendita finanziaria si sente rassicurata e stabile e dunque sarebbe sconsigliabile andare a risvegliare la suscettibilità di stati nazionali che eseguono così bene i propri compiti a casa, anche solo con modesti tentativi di persuasione.

Le istituzioni europee si tengono a debita distanza dalle situazioni di crisi, trincerate dietro il più opaco formalismo diplomatico. Così l’effettività della democrazia e, soprattutto la questione dei migranti, sono diventati argomenti tabù. Scomparsi dall’agenda, sia pure quella, alquanto innocua, della retorica dei «valori».

Nessun anatema incombe dunque su Vienna e sul suo nuovo condottiero che vanta il merito di aver difeso con successo i confini orientali dell’Unione dall’invasione musulmana. Questo silenzio e questa prudenza non terranno tuttavia la Ue al riparo da sentimenti e scelte politiche antieuropeiste.

Tutte le forze nazionaliste hanno ormai articolato una narrazione che mette il disagio sociale in stretta relazione con le politiche europee e con le migrazioni come fenomeni transnazionali che peggiorano, a pari merito, il livello di vita di una comunità «autoctona» più o meno immaginaria.

La combinazione argomentativa, inutile negarlo, ha avuto successo. Ma se difficilmente riuscirà a sfondare sul fronte di un establishment liberista che tiene vincolati a sé molteplici interessi, è a sinistra che questa narrazione produce i maggiori danni.

Lasciando per il momento tra gli incubi e i paradossi, l’ipotesi di un’alleanza tra ultradestra e socialdemocratici in Austria (di cui tuttavia si sussurra) è evidente come in alcuni settori della sinistra la «priorità nazionale» contro il dumpingsalariale e l’impoverimento del welfare imputati all’immigrazione, abbia fatto breccia.

Rispecchia questa circostanza il dibattito in corso nella Linke in Germania, particolarmente colpita dall’emorragia di voti a favore della destra di Afd, subita nei territori più disagiati dell’Est.

La componente del partito che fa capo a Sarah Wagenknecht e Oscar Lafontaine attacca appunto la politica delle «porte aperte», difesa dalla copresidente del partito Katja Kipping, come ideologica, antisociale, antioperaia.

È attraverso questa strada di chiusura che riflessi d’ordine e regressione culturale si fanno strada muovendo verso il ritorno di uno statalismo autoritario, o di suoi elementi, che possono costituire un effettivo terreno di compromesso con il nazionalismo di destra.

FONTE: Marco Bascetta, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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