Trump va in Oriente per premere su Pechino con lo spettro dell’atomica

by FEDERICO RAMPINI | 30 Ottobre 2017 10:08

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NEW YORK.  SCENDE in campo anche papa Francesco per scongiurare il rischio di un conflitto nucleare in Corea. L’iniziativa del Vaticano è un’altra prova della tensione estrema in quell’area del mondo. Ma il “soft power” del papa argentino non ha una sponda amica alla Casa Bianca come ai tempi di Barack Obama. Tantomeno c’è un gioco di squadra tra le diplomazie delle superpotenze terrestre e celeste, come accadde con il duo Reagan-Wojtyla alla fine della guerra fredda.

Venerdì Donald Trump parte per il suo primo viaggio in Estremo Oriente, con la Corea del Nord che ne domina l’agenda. Le prime due tappe sono Giappone e Corea del Sud, la terza è in Cina (chiudono l’itinerario Vietnam e Filippine con i summit multilaterali Apec e Asean). Il primo tema che s’impone è la sicurezza degli alleati. Quest’America così “diversa” vorrà e saprà proteggerli dalle minacce di Kim Jong-un? Trump privilegia un riarmo di Tokyo e Seul fino al punto di incoraggiarli sulla via nucleare? La terza tappa a Pechino propone una domanda complementare: è in grado questo presidente di estrarre da Xi Jinping uno sforzo che non sia solo di facciata, per disciplinare il vassallo riottoso di Pyongyang? Sullo sfondo c’è l’altro tema che si affaccerà nei vertici multilaterali: il sovranismo della Casa Bianca prelude a un disimpegno economico degli Stati Uniti dall’area più dinamica del mondo, che è proprio l’Asia-Pacifico?

Trump disse cose allarmanti durante la campagna elettorale: sostanzialmente era lo stesso messaggio inviato agli europei della Nato e cioè «siamo stufi di pagare per la vostra difesa». A Tokyo e a Seul, quel tipo di linguaggio fa più paura che a Roma o Berlino. Per adesso l’Europa occidentale non vive uno scenario da “countdown atomico”. Invece Giappone e Corea del Sud sono alla portata dei missili di Kim, sui quali un giorno potrebbero viaggiare testate nucleari.

Una volta presidente, sfidato a sua volta dai missili di Pyongyang che teoricamente possono colpire il territorio Usa di Guam o l’Alaska se non la California, Trump non ha più ripetuto quei segnali di disimpegno. Il suo segretario alla Difesa, generale Mattis, lo ha preceduto a Seul per rassicurare sulla protezione Usa. Ora però tocca al presidente. Ogni sua sillaba durante il viaggio verrà soppesata da tutti gli attori di quell’area. Decifrare Trump è uno sport estremo, anche i media americani sono in difficoltà, figurarsi le cancellerie straniere. Si è capito, grosso modo, che non bisogna prendere alla lettera i suoi tweet: non seguono necessariamente delle azioni. C’è il rischio però che li prenda sul serio Kim Jong-un? Né si può dare per certo che il generale Mattis o il segretario di Stato Tillerson siano la voce di questa Amministrazione. L’ultima parola spetta al presidente.

In quanto a tamburi di guerra, Trump non si è moderato. Ha minacciato di distruzione la Corea del Nord e di fine imminente il suo regime. Ha ribadito che l’opzione militare è sempre aperta. Ha detto (maltrattando Tillerson) che cercare il negoziato coi nordcoreani è tempo perso. In altre occasioni ha dichiarato che è la Cina a doversi fare carico della questione.

Nel dubbio su quale sia il vero Trump, tutto questo ha già provocato alcune conseguenze. In Estremo Oriente più ancora che in altre parti del mondo, qualsiasi indebolimento della leadership americana viene immediatamente riempito da altri. Dalla Cina di Xi in primis, ovviamente. Ma c’è anche lo scenario di un’escalation nucleare nei paesi vicini. In Corea del Sud e in Giappone se ne parla sempre di più. Finora l’opzione di costruire un deterrente atomico anche a Tokyo e a Seul ha una base di consenso minoritaria. Però la vittoria elettorale di Shinzo Abe a Tokyo favorisce una revisione della Costituzione in senso meno pacifista. Quel grande vecchio della politica estera Usa che è l’ex segretario di Stato Henry Kissinger, in un colloquio col New York Times ha detto che la nuclearizzazione dei Paesi minacciati dalla Corea del Nord è una risposta razionale e inevitabile. Dopotutto, l’opzione militare evocata dagli americani significa un’escalation in cui Kim può bombardare Seul (10 milioni di abitanti, 20 milioni se si aggiunge l’area metropolitana). Anche solo usando armi convenzionali o chimiche, sarebbe una carneficina immane. In tal caso è legittimo che siano i sudcoreani a poter decidere se e quando premere il grilletto. Lo stesso discorso vale per i giapponesi. Sia quando privilegia i segnali di isolazionismo, sia quando minaccia fuoco e fiamme su Pyongyang, Trump contribuisce a seminare il dubbio fra giapponesi e sudcoreani, se non sia opportuno allentare la propria dipendenza dalla protezione militare americana.

E la Cina? La destra trumpiana non ha torto quando sostiene che tre presidenti Usa si sono fatti menare per il naso da un quarto di secolo: Clinton, Bush, Obama. I cinesi alternano condanne formali dei test nucleari nordcoreani, e un sostegno generoso a quel regime. Ultimo vero leader comunista sul pianeta, Xi ha deciso che non rifarà mai gli errori di Gorbacev: non mollerà un alleato per quanto irritante; non cederà un millimetro alla sfera d’influenza americana; non farà crollare un regime-satellite per poi ritrovarsi una Corea riunificata alle porte. Infine non gli dispiace se Kim con le sue gesta folli mette a nudo l’impotenza degli Usa.

Questo conduce alla partita economica. Un gesto concreto di disimpegno dall’area Trump lo ha fatto, è la rinuncia al trattato di libero scambio con l’Asia-Pacifico (Tpp) che ora prosegue con «tutti meno l’America». Un fatto senza precedenti. Xi farà del suo meglio per attirare i delusi verso la sua versione del globalismo. L’unica cosa che poteva forse intimorire Xi era la minaccia di un’offensiva protezionista da parte di Trump contro la concorrenza sleale della Cina. Per adesso quella minaccia è missing in action, dispersa, come altre promesse a un anno dall’elezione.

Fonte: FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA[1]

 

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