Le truppe irachene entrano a Kirkuk senza combattere, i Peshmerga in fuga

Le truppe irachene entrano a Kirkuk senza combattere, i Peshmerga in fuga

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Kirkuk ieri ha assistito alle stesse immagini di tre anni fa, stavolta su fronti contrapposti: se nell’estate 2014 a fuggire senza combattere di fronte all’avanzata dello Stato Islamico furono le truppe governative irachene, ieri ad abbandonare le armi e ritirarsi verso nord sono stati i peshmerga.

La città, dalla cacciata dell’Isis nel 2014 saldamente in mano a Erbil (presenza visibile per le strade, tra bandiere kurde, poster del leader Barzani e la statua di un peshmerga all’ingresso del capoluogo), ieri è tornata sotto il controllo del governo centrale di Baghdad.

Sporadici e limitati gli scontri iniziati nella notte tra domenica e ieri e che hanno visto contrapposti, più che le truppe ufficiali, le milizie sciite da una parte (fonti locali parlano anche di unità delle Guardie rivoluzionarie iraniane dispiegate a sud e a ovest) e dall’altra civili e guerriglieri legati all’Hpg, braccio armato del Pkk.

L’avanzata irachena è iniziata domenica, dopo la scadenza dell’ultimatum a Erbil a lasciare tutte le istituzioni locali, a seguito dei primi scontri a fuoco tra milizie sciite irachene e peshmerga nel villaggio di Tuz Khurmat, dove ieri il sindaco kurdo Shalal Abdul è stato rimosso e sostituito da un arabo.

In poche ore le truppe irachene e i miliziani sciiti hanno ripreso la base aerea K1, raffinerie, pozzi di petrolio e l’aeroporto, avvicinandosi via via al centro cittadino. Fino all’ingresso del contro-terrorismo iracheno, nel primo pomeriggio di ieri, nella sede del governatorato e la sostituzione delle bandiere del Kurdistan con quelle dello Stato iracheno.

Ad ogni metro guadagnato da Baghdad cresceva il numero di civili in fuga da uno scontro che immaginavano sanguinoso: fin dall’alba file di auto hanno intasato le strade verso nord, in migliaia sono scappati verso i confini ufficiali della regione kurda.

C’è chi è rimasto: molti civili, soprattutto giovani kurdi, hanno preso le armi e hanno provato a difendere la città insieme all’Hpg e ai pochi peshmerga rimasti.

Buona parte di loro è fuggita aprendo alla polemica interna tra le due principali fazioni kurde, non di scarsa importanza in vista delle elezioni del primo novembre: secondo fonti locali a ritirarsi sono state le unità legate al partito Puk, accusato dal Kdp del presidente Barzani di «tradimento».

Era il Puk – dicono – che stava negoziando con l’Iran (il generale Soleimani, capo dei pasdaran, è in Iraq in questi giorni) e il governo iracheno lo status di Kirkuk, prima del collasso di ogni possibile dialogo.

Quanto la ritirata peserà (insieme alla recente scomparsa dello storico leader e fondatore del Puk, Jalal Talabani) si vedrà tra due settimane, sempre che il voto regga agli sviluppi bellici. Ma più di tutto peserà la perdita, ormai realtà fattuale, del principale introito nelle rinsecchite casse kurde, i giacimenti petroliferi del distretto di Kirkuk e delle sue raffinerie.

Drammatica è la perdita, in particolare, dei due giacimenti più ampi, Bai Hassan e Avana, che da soli producevano la metà dei 600mila barili giornalieri esportati da Erbil verso l’Europa, via Turchia.

Che Kirkuk sarebbe stata il teatro principe dello scontro interno era prevedibile e ampiamente anticipato. Erbil, abbandonata dagli alleati dopo il referendum sull’indipendenza del 25 settembre (che Baghdad non ha mai riconosciuto, neppure in chiave di potenziali negoziati), sembra non intenzionata a infilarsi in una guerra civile dai risvolti imprevedibili, soprattutto sul piano politico e di mantenimento dell’autonomia ottenuta nel 1991 dal governo centrale.

A poco servono i proclami di chi è rimasto a combattere a difesa di una Kirkuk kurda: «Combatteremo fino all’ultimo peshmerga», dicono i guerriglieri. Più «accomodante» la dichiarazione del primo ministro iracheno al-Abadi che – consapevole delle insidie dietro un conflitto di più ampia portata – prima forza la mano e poi prova a salvare il salvabile, facendo appello ai cittadini perché garantiscano l’unità e la sicurezza della loro città.

Una città multietnica e multiconfessionale i cui sogni di auto-gestione si eclissano a ogni avanzata esterna.

FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO



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