Caso Regeni. I frutti malati della realpolitik italiana
Nulla è più piccino del compiacersi di aver avuto ragione, quando ciò corrisponda a un torto altrui che comporta guai per tutti.
Di conseguenza rivendicare fieramente «l’avevamo detto», a proposito delle relazioni tra Egitto e Italia e del ritorno del nostro ambasciatore al Cairo, lungi dal consolare, rischia di produrre ulteriore frustrazione. Ed è esattamente questo il sentimento che si prova nell’apprendere «le ultime notizie dall’Egitto». Notizie che, ridotte all’osso, possono riassumersi così.
Nel pomeriggio dell’altroieri, 21 settembre, forze di polizia egiziane, accompagnate da ispettori dell’Investment Authority, hanno tentato di mettere i sigilli alla sede dell’Egyptian Commission for Rights and Freedom, l’organizzazione che – tra l’altro – rappresenta legalmente in Egitto la famiglia di Giulio Regeni. La chiusura degli uffici è stata evitata grazie a un cavillo legale: l’Ecrf è registrata sia come società di avvocati che come compagnia privata, e quindi quel provvedimento, probabilmente valido nei riguardi delle organizzazioni non governative, non ha potuto trovare attuazione. L’atto di ieri è l’ultimo di una lunga serie di pressioni, diciamo così ruvide, ai danni dell’Ecrf: la loro sede era già stata perquisita lo scorso ottobre, con la contestazione che contenesse libri e rapporti sui diversi casi di sparizione forzata registrati in Egitto dal 2013 in poi, e di uno dei loro legali, Ibrahim Metwally, per una settimana erano state fatte perdere le tracce.
Nelle stesse ore La Stampa pubblicava il retroscena che sarebbe avvenuto durante i colloqui ad alto livello a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu. Mentre gli alleati del Cairo, come l’Arabia Saudita, si impegnavano a dichiarare che gli errori possono capitare, in situazioni così difficili, ma non devono essere trascinati al punto di compromettere le relazioni internazionali, invitando quindi l’Egitto ad assumersi le proprie responsabilità, i rappresentanti del governo di Al-Sisi opponevano una netta chiusura. E, secondo quanto riportato sempre da La Stampa, questi sarebbero stati alcuni dei commenti che circolavano in quelle ore: «La colpa è di Regeni. Il Cairo non ha fatto nulla di male e gli italiani stanno esagerando la questione».
Si tratta, evidentemente, di due fatti assai diversi, ma – a collegarli – è il senso di cupa minaccia che entrambi trasmettono; e l’immagine dell’interlocutore-avversario (il governo di Al-Sisi) che comunicano. L’Egitto di oggi è un regime dispotico, responsabile di aver organizzato (o contribuito a organizzare, o comunque tollerato) 378 “sparizioni” dall’agosto del 2016 all’agosto del 2017. E, come tutti i sistemi illiberali, quello di Al-Sisi vive di una ininterrotta e irriducibile pulsione alla menzogna. A questo regime l’Italia ha voluto dare fiducia: prima ha dichiarato che fosse in atto una crescente cooperazione, sul piano politico-diplomatico e su quello giudiziario, poi ha inviato l’ambasciatore Cantini al Cairo. E la ragione di questa scelta consisterebbe nella possibilità di svolgere un ruolo assai più efficace e incisivo di quanto permetterebbe una sede diplomatica priva del suo titolare.
Si è visto.
La beffarda e grottesca coincidenza tra la pienezza dei ranghi dell’ambasciata italiana e i messaggi oltraggiosi espressi dagli episodi qui ricordati dimostra come il realismo politico, compulsivamente evocato dai nostri critici, sia solo un espediente retorico e un’etichetta malamente rattoppata.
Persino un po’ miserevole.
FONTE: Luigi Manconi, IL MANIFESTO
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