Corea del Nord. Reportage da Yongbyon, il cuore del programma nucleare

Corea del Nord. Reportage da Yongbyon, il cuore del programma nucleare

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Il complesso si staglia oltre il fiume, una lunga cinta muraria lo circonda. Tutto intorno campi e villaggi

YONGBON. Il tempo sembra essersi scordato di Kaech’on. Questa città di 400mila abitanti è sospesa in un limbo temporale ancora in bilico tra il cupo e grigio scenario di una città mineraria carbonifera degli anni Ottanta-Novanta e un rilancio verso le nuove opportunità che stanno sfidando la Corea del Nord.

NELLE AMPIE STRADE non sono ancora arrivate le auto che affollano città come Pyongyang, Wonsan o Chongjin. Pochi sono i palazzi in ristrutturazione, ma An Chul-woo, un agronomo che lavora alla Duck Farm Kaechon, una delle più grandi aziende agricole del Paese, assicura che i prezzi degli appartamenti stanno già lievitando, segno che anche la città conoscerà, tra breve, la frenesia imprenditoriale che già elettrizza altri centri nordcoreani.

La sonnolenta città di Kaechon è oggetto di attenzione da parte degli esperti internazionali che seguono le vicende della Corea del Nord per diversi motivi. A poca distanza dalla città sorgono due campi di prigionia: il Campo numero 1 e la Colonia penale numero 14, resa famosa dal libro di Shin Dong-hyuk, Fuga dal Campo 14, in cui l’autore racconta la vita all’interno del campo (per la cronaca, nel 2015 lo stesso Shin Dong-hyuk ha ammesso che alcuni fatti illustrati nel libro erano stati modificati dalla realtà).

Inoltre, nel 2004, la fabbrica 8 gennaio avrebbe costruito i motori per razzi siriani che sarebbero stati distrutti nell’incidente ferroviario di Ryongchon occorso il 22 aprile di quell’anno e in cui morirono anche 12 cittadini di Damasco.

Ma il motivo per cui mi trovo a Kaechon ha un altro scopo: la città si trova a soli 24 chilometri dal centro di ricerca nucleare di Yongbyon, il cuore e il cervello dell’intero programma atomico nordcoreano. La strada per raggiungere l’area è in ottime condizioni e, apparentemente, poco sorvegliata.

Ci vuole poco più di mezz’ora per raggiungere il sito; la centrale nucleare, con la sua inconfondibile ciminiera nera, si staglia sin da lontano, appena al di là del fiume Taeryong.

UNA CINTA MURARIA lunga 500 metri e larga 200 circonda l’intero complesso. Tutto attorno, campi coltivati, villaggi, bambini con zainetti colorati, gente accovacciata sul ciglio della strada o che pedala su biciclette scalcinate indicano quanto lontana sia dalla loro vita quotidiana la tensione internazionale che questo centro nucleare sta creando nei governi delle principali potenze della Terra.

La globalizzazione non è ancora riuscita a raggiungere questi luoghi, che rimangono come sospesi nel tempo e nello spazio.

Ad un centinaio di metri dal controverso reattore da 5 MWe, noto la cupola candida e bianca del nuovo reattore ad acqua leggera da 30 MWe iniziata nel 2009. L’impianto non è ancora entrato in funzione e Pyongyang non ha mai terminato la costruzione, probabilmente per la difficoltà nel trovare finanziamenti e i materiali preclusi alla Corea del Nord dalle sanzioni internazionali.

Poco lontano si scorgono ancora le fondamenta della torre di raffreddamento distrutta nel 2008 come primo segno della volontà di Pyongyang di interrompere il programma nucleare e ricevere gli aiuti di petrolio e carburante promessi dagli Stati Uniti.

LA MORATORIA DURÒ pochi mesi e nel maggio 2009 il secondo test nucleare riportò la Corea del Nord nelle prime pagine di tutti i giornali internazionali.

Dall’altra parte del fiume il centro di ricerca si estende per altri tre chilometri su una penisola quasi circolare. È qui che si trova il cervello di Yongbyon, dove sorgono i dipartimenti ritenuti più nevralgici per il futuro nucleare del Paese.

Il laboratorio di radiochimica è uno dei luoghi più controversi. Nei suoi stabili vengono trattate le 8mila barre di combustibile esausto che ogni due anni vengono estratte dal reattore da 5 MWe per ricavare il plutonio-239 necessario alla produzione degli ordigni nucleari.

Il processo di separazione è identico a quello utilizzato negli impianti statunitensi: le barre di combustibile, dopo essere state fatte raffreddare nelle piscine per cinque mesi, sono sciolte in acido nitrico e, tramite correnti di diversi solventi, uranio e plutonio sono separati. L’ultimo carico è arrivato nel luglio 2016 e in tre-sei mesi i chimici nordcoreani hanno terminato il lavoro.

Ad ogni ciclo di attività il laboratorio di radiochimica riuscirebbe a separare tra i 5,5 e gli 8 kg di plutonio-239, quantità sufficiente per allestire due o tre bombe con cuore composito (cioè misto uranio-plutonio).

Poco distante dal laboratorio, un altro edificio ospita l’impianto di arricchimento di uranio costruito alla metà degli anni Novanta con l’arrivo dal Pakistan di 2mila centrifughe e, dal 2013, raddoppiato nella sua capacità produttiva.

Le centrifughe sono essenziali per la produzione di uranio altamente arricchito, in gergo chiamato WGU (Weapon Grade Uranium, uranio che al 90% è formato dall’isotopo uranio-235). Questo uranio WGU è necessario per la costruzione di bombe a cuore composito, cioè bombe nucleari che utilizzano sia plutonio che uranio come prodotti di fissione.

GLI ORDIGNI COSÌ OTTENUTI sarebbero molto più leggeri e facili da trasportare rispetto alla tradizionale bomba nucleare all’uranio. Ed è proprio questo l’obiettivo che Pyongyang cerca di raggiungere con il suo programma nucleare: creare una bomba sufficientemente piccola e leggera da poter essere trasportata in un’ogiva missilistica.

Sino ad oggi, infatti, il regime nordcoreano non aveva alcuna possibilità di lanciare bombe capaci di colpire il territorio statunitense. Fino al 3 settembre 2017, quando il sesto test nucleare condotto da Pyongyang ha rivelato al mondo che sì, la tanto temuta bomba termonucleare, o bomba H (all’idrogeno), era pronta.

UNA BOMBA BASATA non più sulla fissione degli atomi, ma sulla loro fusione. A parità di energia distruttiva sprigionata, la quantità di materia necessaria in caso di fusione nucleare sarebbe decine di volte inferiore rispetto a una reazione a fissione.

La storia della bomba a fusione inizia ad Hamhung, città vicino la costa orientale della penisola, dove sarebbe in funzione un dipartimento all’interno della Hungnam Chemical Fertilizer Complex per la produzione di litio-6.

Il litio-6 è un metallo che, se irradiato all’interno del reattore di Yongbyon, potrebbe produrre trizio, isotopo essenziale per la fusione, per separare il quale, sempre a Yongyong, si è ultimato un impianto che impensierisce i comandi militari cinesi, sudcoreani, giapponesi, russi e statunitensi.

PER ORA, quello che si conosce del programma nucleare di Pyongyang è poco e frammentario. Dai dati a disposizione, Pyongyang avrebbe prodotto alla fine del 2016 circa 33 kg di plutonio e dai 175 ai 645 kg di uranio di purezza WGU (l’ampiezza di errore è dovuta all’incertezza sul numero di centrifughe a disposizione).

Il materiale sarebbe sufficiente per produrre tra le 13 e le 30 bombe nucleari, mentre ogni anno, se il ciclo di produzione andasse al 100% delle proprie potenzialità, la Corea del Nord sarebbe in grado di aggiungere al suo arsenale tra le tre e le cinque bombe nucleari.

FONTE: Piergiorgio Pescali, IL MANIFESTO



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