Trump allestisce un pasticcio Afghano
«Sono un problem-solver e, alla fine, vinceremo». Per annunciare ai cittadini la nuova, attesa strategia sull’Afghanistan, il presidente Trump si è presentato in diretta televisiva come «un problem-solver», simile al personaggio interpretato da Harvey Keitel in Pulp Fiction, chiamato a risolvere le grane più difficili con esperienza e calma. Trump, privo di esperienza, se l’è presa con calma – 8 mesi di discussioni serrate alla Casa bianca e al Dipartimento di stato – per elaborare la nuova strategia sull’Afghanistan e l’Asia meridionale.
NE È USCITO UN PASTICCIO, un pot pourri male amalgamato di nazionalismo e interventismo, di enfasi sulla necessità di picchiare duro i terroristi e di spiragli di pace per i Talebani. Nessuna soluzione nuova.
Anzi, un ritorno al vecchio slogan, e alla vecchia politica, della guerra infinita. L’unico elemento che differenzia la strategia annunciata ieri da Trump da quella del predecessore Obama riguarda i tempi della presenza dei soldati a stelle e strisce in Afghanistan.
Rimarranno fino a quando serve, ha detto Trump, che ha evitato di parlare di ritiro, di deadline, e perfino di quanti uomini in più intenda inviare. Nel suo discorso, zeppo di retorica e privo di dettagli concreti, ha usato parole dure contro il Pakistan, accusato di ospitare i santuari di quegli stessi terroristi che gli Usa combattono in Afghanistan e altrove. Nulla di inedito. Sono anni che Washington prova a convincere Islamabad (e Rawalpindi, sede del potere militare) ad abbandonare il doppio gioco, attraverso la leva degli aiuti militari e finanziari.
MA GLI STRUMENTI di convincimento sono ormai spuntati. E quello usato da Trump rischia di alimentare ulteriormente il caos, anziché risolverlo: il «problem-solver» ha infatti invitato l’India a giocare un ruolo maggiore in Afghanistan. Dichiarando dunque il paese centro-asiatico un terreno di battaglia tra Islamabad e Nuova Delhi, da sempre ai ferri corti.
Trump ha poi dimenticato di menzionare gli altri attori regionali, Iran, Russia, Cina, che guardano con sospetto e crescente risentimento agli americani in quello che considerano il loro cortile di casa. Eppure ha mandato loro un messaggio chiaro, annunciando che la presenza delle truppe americane – che avranno maggiori libertà operative – non solo è prolungata, ma destinata a durare fin quando sarà necessario. Fino alla vittoria finale. Che da oggi in poi, ha specificato il presidente Usa, «avrà un significato chiaro: attaccare i nostri nemici, eliminare l’Isis, schiacciare al-Qaeda, impedire che i Talebani riconquistino l’Afghanistan, e fermare gli attacchi terroristici contro l’America prima che emergano».
LA VUOTA RETORICA DI SEMPRE, presentata come nuova. Così come è ormai tradizionale l’enfasi sull’opzione militare. Trump ha riconosciuto che, «da sola, la forza militare non porterà pace all’Afghanistan né fermerà la minaccia terroristica che viene da quel paese». L’uomo nuovo alla Casa Bianca sembra dunque ripetere gli stessi errori di sempre: pensare di poter costruire la pace attraverso le armi. In Afghanistan non ha mai funzionato.
E NON FUNZIONERÀ neanche questa volta. Ai Talebani, che non si possono sconfiggere militarmente, viene presentata la solita tattica del bastone e della carota: più droni, forze speciali e omicidi mirati da una parte, e dall’altra un eventuale, ipotetico, futuro piano negoziale, ribadito anche dal segretario di Stato Usa, Tillerson. I turbanti neri, da parte loro, ripetono la solita cantilena: «prima il ritiro dei soldati stranieri, poi la pace». Prima di essere eletto presidente, Trump era d’accordo con loro.
Reclamava il ritiro immediato delle truppe americane. Poi ha cambiato idea. Qualcuno a Kabul pensa che, se fosse stato coerente, avrebbe davvero meritato il titolo di «problem-solver».
FONTE: Giuliano Battiston, IL MANIFESTO
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