Foreign fighters. Il Marocco tra narco-jihadisti e miseria

Foreign fighters. Il Marocco tra narco-jihadisti e miseria

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Usano le reti del narcotraffico, si auto-finanziano e attirano i giovani – sempre più poveri – delle periferie e le campagne

Tra i principali esportatori di jihadisti verso il «califfato» tra Siria e Iraq, il Marocco – non affatto nuovo all’attività di gruppi di matrice salafita, fin dagli anni ’80 – non è l’isola felice come molti in Occidente lo dipingono.

Il fenomeno dei foreign fighters, inaugurato con la guerra russo-afghana, ha toccato le 1.500 unità dopo la presa di Mosul nel giugno 2014 (2.500 calcolando anche i marocchini cittadini europei).

Destinazione Siria, grazie anche all’ufficioso «scivolo» del governo: Rabat, dopo lo scoppio della guerra civile siriana, si è schierata contro il presidente Assad. E, seppur tacitamente, ha garantito la fuoriuscita di suoi cittadini verso le formazioni islamiste e salafite attive in territorio siriano, da Ahrar al-Sham al Fronte al-Nusra.

Un po’ per liberarsene, un po’ per sostenere il fronte anti-Damasco. Con il tempo il flusso si è modificato: negli anni successivi molti hanno preferito la vicina Libia e altri hanno tentato il rientro a casa, preoccupando non poco la monarchia marocchina che ha rivisto la legge anti-terrorismo emanata dopo gli attacchi di Casablanca del 2003 e inasprito controllo e repressione.

Criticato dalle organizzazioni per i diritti umani per la conseguente limitazione di libertà politiche di base, il governo ha utilizzato il capillare monitoraggio del territorio per impedire la nascita di reti maggiormente strutturate. I jihadisti marocchini combattono fuori, non dentro casa.

A partire verso le terre del califfo al-Baghdadi sono attivisti salafiti, imprigionati per anni a volte senza ragione, che dietro le sbarre si sono radicalizzati. Ma sono soprattutto i giovani, i due terzi del totale.

Quelli delle periferie delle grandi città, Rabat, Casablanca, Tangeri (il 75%) ma anche quelli che vivono nelle zone rurali dimenticate dai piani di investimento, sviluppo e incentivo all’occupazione. A loro i reclutatori jihadisti promettono una vita nuova e piccoli aiuti finanziari alle famiglie.

Graziato dalle cosiddette primavere arabe del 2011, re Mohammed VI ha evitato il collasso con l’attuazione di alcune riforme che però, a distanza di sei anni, non hanno portato cambiamenti.

Hanno invece radicato l’immagine di un paese a due velocità: da una parte le grandi imprese che godono degli investimenti nelle infrastrutture e nei settori elettronico e aeronautico e le compagnie europee che controllano settori strategici (a partire dalla pesca e dall’energia), esportando buona parte della produzione locale e provocando l’innalzamento innaturale dei prezzi interni; dall’altra vasti strati della popolazione che lavorano spesso a giornata, senza contratto né diritti.

Emarginazione sociale, alto tasso di disoccupazione giovanile, gap tra città e campagna, mancato sviluppo dei settori centrali dell’economia marocchina stanno negando un futuro dignitoso a molti giovani.

Per alcuni la risposta è stata Daesh. I servizi – il Direttorato generale per la sorveglianza del territorio e la Brigata Nazionale della polizia giudiziaria – ne conoscono buona parte, permettendo a Rabat di promuoversi agli occhi europei come uno dei principali partner anti-terrorismo nel Maghreb.

Il timore è quello di un ritorno in patria e la conseguente creazione di cellule legate a doppio filo alla leadership dell’Isis in Medio Oriente. Ma, secondo i servizi segreti marocchini, non è l’Isis il pericolo immediato, sebbene le sconfitte registrate tra Siria e Iraq stiano conducendo a nuove strategie di azione, l’espansione nei paesi vicini attraverso gruppi piccoli, capaci di infiltrarsi e organizzare attentati.

Il rischio concreto proviene dai gruppi attivi da anni, se non decenni, in Marocco e che si richiamano per lo più ad al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqim), filiale nata dall’Islamist Salafist group for Preaching and Combat, la creatura che ha accolto e formato il leader jihadista Belmokhtar (divenuto poi una delle colonne di Aqim fino al 2012).

Successivamente Belmokhtar, noto trafficante di droga e armi oltre che leader jihadista, alla testa di Al Mourabitoune ha unito le forze con quelle di Mujwa (Movement for Unity and Jihad in West Africa), fuoriuscita da Aqim nel 2012.

Sono loro che gestiscono milizie radicate dalla costa al deserto e ribattezzate narco-jihadiste: controllano lo spaccio di droga dalle montagne del Rif in Marocco (dove si produce la metà dell’hashish a livello globale, 15mila tonnellate e 10 miliardi di fatturato all’anno) verso il resto del Nord Africa e verso l’Europa. Sfruttano le stesse tratte, le stesse reti, non solo per un ingente finanziamento interno ma anche per muovere uomini e armi.

«I cosiddetti narco-jihadisti controllano il triangolo nella terra di nessuno tra nord del Mali e Niger, est della Mauritania, sud dell’Algeria e Libia – scriveva già due anni fa Abdelkader Cheref, professore alla State University di New York – Cresce la preoccupazione per i legami tra i signori della droga marocchini e i narco-jihadisti di Aqim e Mujwa».

FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO



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