Esodi e sgomberi. Le verità negate sui rifugiati eritrei

Esodi e sgomberi. Le verità negate sui rifugiati eritrei

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«Camèl, barchèta e te turnet a ca’. Capì? Possono restare da noi solo quelli che condividono i nostri valori e rispettano le nostre leggi».

«Non ti va bene? Camèl, barchèta e te turnet a ca’». Nello sfogatoio di questi giorni contro gli immigrati eritrei sgomberati con le cattive dal grande edificio occupato a Roma è mancata solo la voce dell’ex assessore fascio-leghista della Regione Lombardia, Pier Gianni Prosperini, famoso appunto per quel tormentone securitario in dialetto con cui chiudeva le sue sfuriate televisive: «Cammello, barchetta e te ne torni a casa».

Lui sì, aveva le idee chiare sugli eritrei che, stando ai rapporti dell’Alto commissariato per i rifugiati, hanno rappresentato in anni recenti come il 2015 la fetta più grossa dei profughi sbarcati dalle carrette del mare in Italia. Davanti ai nigeriani, ai somali, ai sudanesi… Macché rifugiati in fuga dal terrore! Erano tutti giovani, spiegò una volta a Radio Popolare , che «certamente non fuggono per motivi politici o disagio personale. Vengono verso un mondo di lustrini dove si può guadagnare di più».

E le denunce internazionali contro il regime di Isaias Afewerki, che dopo aver portato nel 1993 l’Eritrea all’indipendenza dall’Etiopia si impossessò del potere abolendo le elezioni e instaurando un regime dittatoriale? E i dossier di Amnesty International sulla leva obbligatoria a tempo indeterminato («per questo nessuno può avere un passaporto prima dei 60 anni», spiegò il Sole24Ore ) e la progressiva corsa alle armi che ha portato il Paese ad essere classificato come il secondo stato più militarizzato al mondo? E l’abolizione della libertà di stampa che ha guadagnato per sei anni consecutivi ad Asmara, dove dal 2010 non ci son più corrispondenti esteri, il marchio assegnato da «Reporters sans frontières» di Paese meno libero del pianeta? E il durissimo rapporto (con 830 interviste e 160 deposizioni scritte) della Commissione d’inchiesta Onu sulle torture più spaventose applicate sistematicamente ai prigionieri?

Ecco, sarebbe bello se in questi giorni di polemiche sulla opportunità o meno di applicare in modo così ruvido la legge nello sgombero dell’«hotel clandestino» di piazza Indipendenza (dove gli «ospiti» pagavano per una topaia quanto uno studente universitario per dividere una camera intorno alla Bicocca o al Verano) gli italiani fossero informati meglio anche su «chi» c’era dentro, quel palazzo: eritrei.

E soprattutto sul «perché» tanti eritrei sono scappati dalla loro patria per cercare rifugio da noi. Anche nella scia d’un passato che per una sessantina di anni vide l’Eritrea, «Colonia primogenita dell’Italia», riempirsi di immigrati italiani saliti via via fino a oltre centomila. Il tutto tra il plauso della Chiesa cattolica per l’invasione di quella terra da diciassette secoli già cristiana ortodossa («Essi vogliono portare a quelle genti, avvolte negli orrori della schiavitù e nelle tenebre delle false religioni», spiegò il vescovo Giovanni Giorgis, «la luce divina della vera fede e della carità fraterna, e procurare insieme un vasto campo di lavoro a tante famiglie che non hanno il pane sufficiente in patria») e la diffidenza razzista di Roma.

«A casa loro»

Valga per tutte una circolare del Governatore dell’Eritrea del 1936 (prima delle leggi razziali: prima!) ripresa recentemente nel libro In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero (Laterza) di Emanuele Ertola. Circolare che deprecava «lo spettacolo che si verifica giornalmente dinanzi alle case malfamate delle donne indigene, dove molti nazionali fanno ressa e schiamazzi per avere la precedenza nell’ingresso, come sono degradanti alcune manifestazioni cui si sono abbandonati taluni giovani cittadini che si sono fatti vedere pubblicamente in pose di ridicola svenevolezza verso donne indigene e, peggio, si sono fatti fotografare». Di più, continuava il documento, «nonostante i richiami già fatti, si vedono ancora cittadini nazionali che vanno in autovettura od in carrozza con indigeni, o si recano a passeggio e nei caffè con indigeni, o danno comunque eccessiva confidenza agli indigeni stessi». Ecco: così eravamo noi là, a casa loro. A casa degli eritrei. E certo la nostra storia, per quanto costituita fortunatamente anche dal buon lavoro e dalla stima guadagnata da tanti nostri connazionali, non è una storia di cui andare tanto fieri.

La fuga dal conflitto

Ma per capir meglio certe indecenti ipocrisie, è utile risentire appunto quanto diceva Pier Gianni Prosperini in una video-intervista che gli fece nel 2009 Fabrizio Gatti dal titolo «L’amico Isaias». Dove l’allora assessore alla sicurezza (alla sicurezza!) della più importante regione italiana si vantava d’esser «colonnello dell’esercito eritreo» e di esserne «molto orgoglioso». Definiva Afewerki «un uomo capace e sagace» che conduceva il Paese «con mano ferma e paterna». Ferma e paterna.

Chi scappa via, tuonava il rissoso alleato di Roberto Formigoni, «è un traditore. Perché in questo momento c’è bisogno che stiano lì». E poi: «Dove sono questi torturati? Io non li ho visti. Ho girato il Paese in lungo e in largo ma non ho visto prigioni con torturati o torturanti. Cosa pensano, che gli strappino le unghie? Ma dove l’hanno visto? Che prove hanno più che le balle che loro e qualche pretaccio infame vanno in giro dicendo? C’è un governo, vogliamo dire un po’ autoritario? Ci vuole! Torture perché? Casomai li ammazzano: li butti in un formicaio e li troveremo fra duemila anni…»

Poche settimane dopo veniva arrestato. L’accusa: tangenti. Ad aprile del 2015 i nostri Alessandra Coppola e Michele Farina raccontavano sulla diaspora eritrea: «Non c’è luogo al mondo che non sia in guerra e che registri un esodo così massiccio e continuato. Sei milioni di abitanti. Il 20 per cento è già partito. Ma non sempre è arrivato. In 350 sono morti solo nell’ultimo naufragio». Negli stessi giorni usciva un’Ansa: «L’ex assessore regionale lombardo Pier Gianni Prosperini è stato condannato a 4 anni di reclusione nel processo milanese che lo vedeva accusato di esportazione illegale di materiale d’armamento verso l’Eritrea». Camèl, barchèta e coerenza…

FONTE: Gian Antonio Stella, CORRIERE DELLA SERA



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