L’Italia e la Libia. Di flotta e di governo
E la flotta va. Stavolta addirittura con l’appoggio di un editoriale di Travaglio su il Fatto, che giorni prima sfotteva sulla «flottina». Si scherzerà lungamente sulle «sole» due navi che con il voto del parlamento l’Italia ha deciso di inviare ieri. Ma c’è poco da ridere, sono infatti solo l’avanguardia del presidio che lì si sta definendo. E francamente, con scarsissima credibilità, nonostante gli sforzi mimetici, del governo e in particolare del ministro della Difesa Pinotti e del ministro degli esteri Alfano. La prima alla commissione parlamentare aveva dichiarato che non c’è «nessuna ingerenza, casomai vogliamo aiutare…». Eccola l’ingerenza, con due navi da guerra che nel porto di Tripoli – su richiesta di una fantomatica lettera del «premier» Sarraj – saranno percepite dalle fazioni in cui è divisa la Libia del caos non come l’improbabile sostegno alla guardia costiera libica, corrotta e inesistente; ma come il soccorso diretto a Fajez al Sarraj, da noi già insediato proprio con le navi della nostra Marina militare. Si tratta del nostro interlocutore che ci ostiniamo a chiamare «le autorità libiche», secondo l’adagio mutuato dal precedente europeo «ce lo chiedono le autorità libiche». Ben sapendo che Sarraj non controlla nemmeno il perimetro della città di Tripoli, dove resta forte la presenza delle milizie legate al governo precedentemente insediato e eletto, quello islamista di Khalifa Kweli.
In una Tripolitania divisa tra centinaia di fazioni armate dove aree significative sono in mano a milizie che hanno detenuto e liberato il figlio di Gheddafi, Seif al Islam, e altre dal signore della guerra della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar sostenuto da Egitto e Francia, che avanza e occupa pozzi petroliferi decisivi; mentre a sud regna il vuoto dei clan del Fezzan. In fondo, ai margini di Niger, Ciad e Mali. Dove la presunzione di Marco Minniti per fermare la disperazione dei profughi in fuga da guerre e miserie, è impegnata a preparare un «controllo» su ben 5mila km di frontiera, nel deserto. Nell’intento di allestire tanti «posti sicuri» che, è bene ricordarlo, adesso in Libia non ci sono. Né l’Unhcr-Onu li ha mai ancora preparati.
Dice il ministro degli esteri Angelino Alfano che dobbiamo stare tranquilli perché l’armamentario interventista della «nostra iniziativa» si avvale ormai di una «consuetudine di rapporto» con la realtà sul campo, che lo ha visto rincorrere a Tripoli l’emergente Minniti. Come dimenticare i capi tribù arrivati al Viminale a Roma e poi i «sindaci» incontrati in Libia? I sindaci? ma chi li ha eletti nei porti di Sabratha – al tempo dell’ultimo rapimento di tecnici italiani il «capo della cotà» era un ex affiliato ad Al Qaeda – a Zuwara o Garabouli?
Ma a che serve davvero questa «piccola» missione navale militare, oltre a preparare l’avvio di un sistema di presidi più elevato? La spiegazione è arrivata, inaspettata, dal caso della nave umanitaria Iuventa fermata ieri a Lampedusa. La nave dell’Ong tedesca Jugend Rettet, è stata bloccata nel porto e sono stati identificati due cittadini siriani. Poi è stata sequestrata. La colpa? Non avere sottoscritto, come la maggior parte delle Ong, il codice ricattatorio imposto dal governo che le obbliga ad accettare presenze e verifiche armate, puntando a trasformare le organizzazioni umanitarie che sono state quasi gli unici organismi che si sono impegnati in operazioni di salvataggio nel Mediterraneo, nel capro espiatorio buono per tutti gli usi. Una vera e propria intimidazione. Applaudita dall’Ue, dai ministri «di flotta e di governo», dalla destra estrema xenofoba e populista, dalla stampa di regime, dalla magistratura che si rende disponibile e che li addita perfino come conniventi con i trafficanti di esseri umani.
E tutto questo mentre le navi militari italiane entravano ieri sera nel porto di Tripoli. Insomma lo scopo alla fine sarà quello di ridurre drasticamente i soccorsi, con il rischio evidente che le navi militari che abbiamo messo in mare contribuiranno, più o meno direttamente, al respingimento di persone disperate, uomini, donne e bambini sulle coste libiche, per consegnarli alla fine nelle mani di chi li mette in galera e in campo di concentramento.
Tutti o quasi, politicamente ed elettoralmente contenti e pronti ad accaparrarsi il risultato già evidente che gli arrivi dei profughi sono diminuiti, a quanto pare, più della metà. Chissà, con l’obiettivo magari di azzerarli. ma che fine faranno gli esseri umani disperati che attraversano i deserti nel miraggio di attraversare la Libia e raggiungere la prospera ed «accogliente» Europa?
Nel tempo reale, dove tutto intorno infuriano le guerre mediorientali dalle quali ormai volgiamo lo sguardo facendo finta di niente, come se non ne fossimo tra i responsabili; e mentre imperversa il nostro modello di rapina delle risorse africane. dal quale se si fugge, abbiamo coniato il nefasto termine di «migranti economici» che Macron, il neocoloniale presidente francese, dichiara di essere «loro sì inaccettabili». In conclusione, stiamo riducendo gli arrivi ma per raccogliere sempre più morti a mare e non solo a mare. Sulle sponde della Libia che abbiamo contribuito a distruggere affonda, oltre al diritto internazionale, la dignità della politica.
FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO
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