Centro Italia, dopo il terremoto. Gli artigiani del cibo che chiedono aiuto
RICOSTRUIRE il tessuto sociale e comunitario di un luogo è opera assai più lunga e complicata che restituire alle persone infrastrutture, case, stalle, laboratori. Lo dimostra la situazione del nostro Centro Italia, colpito un anno fa da scosse di terremoto che hanno raso al suolo alcuni paesi di Umbria, Lazio, Abruzzo e Marche.
La ricostruzione è ancora molto lontana dall’essere partita con decisione, in alcuni casi non sembra essere cambiato nulla dall’alba del 24 agosto del 2016, poco dopo la scossa, mentre in altri si vedono i primi segnali positivi, come la consegna delle prime casette che consentiranno, o almeno questa è la speranza, alla popolazione di trascorrere un inverno più agevole, ancorché da sfollata. Tra le persone più colpite, trattandosi di un’area del nostro Paese a vocazione prevalentemente agricola, ci sono ovviamente i contadini, gli allevatori e gli artigiani del cibo. In molti casi hanno perso animali, laboratori, attrezzature e, come tutti, attendono fiduciosi che la macchina organizzativa dello Stato risponda alla chiamata della popolazione. Situazioni diverse, territori diversi, storie naturalmente diverse.
C’è tuttavia un aspetto che accomuna molte delle esperienze agricole che ho avuto modo di conoscere dopo il sisma: la sensazione che in qualche modo la cosa più urgente da ricostruire sia il tessuto sociale, il rapporto che i cittadini dei luoghi colpiti dalla tragedia avevano con i produttori del cibo del territorio, non solo in termini commerciali. Da più parti si avverte uno scollamento, certamente dovuto al trauma che il sisma ha rappresentato e rappresenta, ma non per questo meno preoccupante per chi, come i contadini, gli allevatori e gli artigiani del cibo, non ha altro modo di voltare pagina se non quello di riprendere a produrre come faceva prima (o avvicinarcisi il più possibile), di rimettere mano alle proprie stalle, ricostruendole, ricominciando a mungere i propri animali, a smielare i propri favi, a imbottigliare il proprio vino, risistemando i propri laboratori. I mercati contadini, dove esistevano, faticano a ripartire, sono spesso poco frequentati. Il commercio di prossimità è crollato, anche dove le attività non hanno subito danno o sono già ripartite con vigore.
È chiaro che la precarietà del post terremoto gioca un ruolo principe in questo processo, e forse qualcuno potrebbe pensare che, in un momento in cui la maggioranza della popolazione colpita non ha ancora ricevuto l’adeguata assistenza, non ha una casetta e non sa ancora dove passerà l’inverno, quella del legame tra produttori di cibo e cittadini sia una preoccupazione superflua, addirittura frivola, persino insensibile. Io penso che non sia affatto così, credo che al contrario sia necessario agire fin da ora per invertire questa tendenza. Perché quando queste fratture si creano, poi non è semplice ricucirle. Una sensazione di solitudine e di smarrimento, quella manifestata da diversi produttori, che infatti non riguarda solo i contadini dei 140 Comuni inclusi nel “cratere del sisma”, dunque l’area colpita direttamente, ma anche coloro che lavorano nelle aree immediatamente limitrofe.
E allora tocca a noi cittadini mobilitarci, proporre soluzioni, intraprendere iniziative. Immediatamente dopo le prime scosse, da molte parti si lanciarono iniziative di solidarietà, raccolte di fondi e di materiali. Come spesso è accaduto, la risposta degli italiani non si è fatta attendere e molto è stato fatto grazie a quegli sforzi. Oggi però bisogna porre le basi per fare qualcosa in più, qualcosa che possa garantire un impatto nel lungo periodo. Iniziative come le comunità di supporto possono rappresentare un passo in questo senso: cittadini che si impegnano a sostenere le produzioni locali con acquisti anticipati che consentano ai produttori di non indebitarsi e di avere il prodotto venduto in anticipo. Allo stesso modo un progetto come “La buona strada”, che Slow Food Italia ( www. slowfood. it) ha lanciato e che mira ad acquistare un caseificio mobile che consenta di far ripartire produzione e vendita per coloro che hanno perso tutto, può costituire un passo importante. Queste iniziative non solo costituiscono una leva potente dal punto di vista economico, ma consentono anche di ricostruire relazioni e legami, di rendere più denso il tessuto sociale di una comunità, di disegnare un paradigma di futuro possibile. È un compito, questo, che non possiamo e non dobbiamo lasciare in mano a chi vive nelle aree del cratere, ma che dobbiamo assumere tutti quanti, con spirito di solidarietà e di partecipazione.
Il futuro del Centro Italia è il futuro di tutta la nostra penisola, occorre ragionare in maniera coesa e costruttiva. Solo così potremo davvero ridare slancio e futuro a questa meravigliosa parte del nostro Paese.
Fonte: CARLO PETRINI, LA REPUBBLICA
Related Articles
Clima. Il segretario delle Nazioni Unite: si va «verso la catastrofe»
Sempre più drammatiche le parole del segretario Guterres Il nuovo report: insufficienti gli sforzi dei paesi da qui al 2030. Per rispettare l’obiettivo ambizioso dell’Accordo di Parigi, il mondo ha bisogno di dimezzare le emissioni annuali di gas serra nei prossimi otto anni
Taranto, la bella avvelenata
Accanto all’Ilva di Taranto convivono un porto industriale, una raffineria, due termovalorizzatori, un cementificio, e centinaia di altre attività: un immane complesso industriale è scagliato addosso a una città dalle strutture fragilissime