Quantitative easing. Gli spari sopra il «bazooka» di Draghi

by Luigi Pandolfi | 26 Agosto 2017 8:44

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Al meeting annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole, in Wyoming (Usa), Mario Draghi non dice una parola sulla politica monetaria, facendo volare l’euro sul dollaro. Ma del resto, in un discorso a Lindau, in Baviera, aveva di nuovo, e caparbiamente, difeso il «suo» Quantitative easing: «È ingiustificato affermare che sia uno strumento inutile», è stata la sua conclusione, ricordando che «ampie ricerche empiriche hanno affermato il successo di queste politiche nel supportare l’economia e l’inflazione, sia nell’Eurozona, sia negli Usa».

A parte il fatto (non certo secondario) che negli Stati Uniti l’allentamento quantitativo è iniziato immediatamente dopo lo scoppio della crisi (in Europa dopo sette anni), accompagnandosi ad un sostanzioso programma di stimolo fiscale (sostegno alla domanda interna, rilancio dell’occupazione) all’economia, non si capisce a quali dati «empirici» il Governatore abbia fatto riferimento, stando ai risultati dell’operazione, fino ad oggi.

Di certo, non poteva snocciolare dati statistici, scientifici[1], il numero uno dell’Eurotower, perché stridenti con gli obiettivi del programma e con le sue stesse dichiarazioni.

A luglio, l’inflazione annuale calcolata per l’intera eurozona è stata dell’1,3%, stabile rispetto al mese precedente, nel quale si era registrata un’altra flessione dopo il picco di aprile (+1,9%, il più alto dal 2013). Un dato che allontana nuovamente l’obiettivo del (quasi) 2% (tasso ottimale stabilito dalla Bce), nonostante gli oltre 1500 miliardi di euro finora «iniettati» nel sistema (soldi creati dal nulla, ovviamente).

Non è una questione di poco conto: inflazione troppo bassa significa che la gente non consuma, che l’economia ristagna, che la crisi non è ancora alle spalle. Insomma, di inflazione si può morire, se è troppa, ma anche se è troppo poca.

A complicare le cose ci si mette, ora, anche la «corsa» dell’euro. Una variabile inattesa, perché tra gli effetti dello stampare moneta dovrebbe esserci anche un deprezzamento della stessa. E invece no.

A gennaio era quasi parità col dollaro, oggi di biglietti verdi ce ne vogliono 1,17 per ogni euro (+13% dalla fine di dicembre). Un problema per l’export e per l’agognata ripresa, inflazione compresa. Niente di strano, nondimeno: gli investitori hanno perso un po’ di fiducia in Trump e stanno dirottando altrove le proprie scelte. La conseguenza è che il dollaro scende e altre monete diventano più forti rispetto ad esso, a cominciare dall’euro.

Ecco, basta un Trump di turno per mandare in fumo migliaia di miliardi. E questo accade quando il futuro di un’economia, che poi è il futuro di milioni di individui in carne ad ossa, è affidato quasi totalmente – sarebbe il caso di dire ciecamente – alla presunta «efficienza del mercato».

A dieci anni dalla Grande recessione, siamo ancora qui, salvo alcune eccezioni, ad aspettare il miracolo, la ripresa dietro l’angolo, a bearci per gli zero virgola, in attesa che i colpi del bazooka di Draghi finalmente vadano a segno.

Facciamo finta di non accorgerci che lo stesso incremento del Pil, quando c’è, non è direttamente proporzionale alla crescita dell’occupazione e del benessere. Può capitare, ad esempio, che un Paese come l’Irlanda vada in deflazione e, al tempo stesso, faccia registrare il più robusto balzo in avanti del Pil su base annua tra tutti i partner dell’eurozona (+6,1%).

C’è Pil e Pil, d’altro canto. In questo caso, siamo di fronte ad un Pil irrobustito dalle performance delle multinazionali dell’hi-tech, grandi profitti, pochissimi dividendi per i cittadini.

Nel frattempo blindiamo i bilanci pubblici, dal centro alla periferia, dai governi nazionali agli enti locali, con paletti e soglie assurde, contribuendo all’asfissia del sistema economico che diciamo di voler rianimare. Lo dicono tutti, ormai: all’Europa manca la «seconda freccia», ovvero politiche fiscali espansive, più spesa pubblica, per rilanciare la domanda interna, spingere i consumi, creare nuovi posti di lavoro.

Tutti, anche la stampa mainstream, convengono che continuare a stampare moneta non servirà a molto, se la stessa continuerà a girare soltanto nel circuito bancario, che, per buona parte, la trattiene, in quanto liquidità in eccesso.

Al massimo, potrà verificarsi un alleggerimento della pressione dei mercati sui titoli di Stato (tassi di interesse più bassi), come in verità sta accadendo, ma gli effetti sull’economia reale saranno pressoché nulli.

Non a caso, a Jackson Hole, insieme alla presidente della Fed Janet Yellen, ha messo in guardia l’amministrazione Trump dall’allentare le regole finanziarie post-crisi, criticando anche i «seri rischi» derivanti dal protezionismo.

FONTE: Luigi Pandolfi, IL MANIFESTO[2]

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Endnotes:
  1. dati statistici, scientifici: https://www.ilmanifesto.it/i-numeri-della-grande-crisi/
  2. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/08/94168/