by NATHAN ENGLANDER | 17 Agosto 2017 9:30
QUESTO sporco ebreo si ricorda di ogni monetina che gli è stata tirata addosso. Di quelle che ci tiravano dall’alto mentre, con le nostre yarmulke fissate sui capelli ancora umidi, aspettavamo che ci venissero a prendere alla piscina pubblica della cittadina di Long Island dove abitavamo. Ero già abbastanza grande da provare vergogna per quei ragazzi più giovani che di fronte alle risate degli antisemiti non sapevano fare di meglio che scappare.
Ricordo quando, rientrando a casa a piedi dalla sinagoga al fianco di mio padre, vestito come lui con abito e cravatta, scorgemmo un ragazzo del vicinato a carponi e circondato da bulli che lo costringevano con la forza a raccogliere delle monetine da terra. Ricordo che mio padre intervenne di corsa per soccorrerlo, disperdendoli.
Mi ricordo di quando, presso il medesimo incrocio ma in un’occasione diversa, quei neonazisti in erba circondarono mia sorella, e di come io corsi a casa in cerca di aiuto. Ricordo che i miei genitori si precipitarono fuori, e che mio padre e mia madre (dall’alto del suo metro e cinquantadue) affrontarono i genitori di quei ragazzi. Che intanto facevano l’occhiolino ai propri figli — rimproverandoli in stile Trump per un comportamento che non intendevano condannare. Dissero al proprio figlio che doveva lasciare in pace gli altri ragazzi, avessero anche “avuto le corna”.
Non dimenticherò mai la vergogna che provai in quel momento. Né nessuno degli altri affronti. Ricordo ogni scazzottata, ogni finestra infranta, ogni fischio e ogni insulto. Me ne ricordo perché ciascuno di quei gesti mi fece sentire in pericolo e non accettato, nella mia stessa casa. A me, che ero americano da cinque generazioni. D’altronde era proprio quella l’intenzione.
Adesso vivo a Brooklyn, dove mio padre è cresciuto. E qui, dopo aver visto la gente esultare in strada per la vittoria di Barack Obama, per il riconoscimento dei matrimoni gay in tutto il Paese e per altri eventi rivoluzionari, sono finalmente riuscito ad accettare il passato in quanto passato e a vedere sotto una luce nuova il nostro presente collettivo.
Oggi, da laico, osservo stupito i giovani ebrei praticanti, che non nascondono la yarmulke in tasca per paura. Dev’essere fantastico, ho pensato, crescere in quest’America — non perfetta, ma decisa a migliorare. Mi resi conto che pur essendo quarantenne facevo già parte del passato. Che non vi era più bisogno di conoscere alcune delle cose che avevo vissuto.
A Charlottesville, in Virginia, tutto questo è andato perso in un giorno solo, a sette mesi dall’inizio dell’attuale presidenza. Ci è stata tolta una generazione, e tanto altro. Oltre al trauma di chi è stato attaccato dai nazisti sul suolo americano e alla tragedia dell’omicidio di Heather Heyer, c’è quella che il resto di noi condivide: il dolore, la violenza, e le lezioni che da esse derivano. Perché i bambini che conoscono un giorno simile, e un presidente come quello attuale, non dimenticheranno la paura e la mancanza di rispetto che prende di mira il bambino di colore, il bambino musulmano, il bambino ebreo.
Non dimenticheranno i mitra che questo governo mette nelle mani di quei violenti, né gli slogan che affermano che la vita dei neri non conta e che gli ebrei “non prenderanno il nostro posto ”.
Ripensando ai tempi in cui ero praticante e mi coprivo il capo, mi torna in mente una nozione che i nostri rabbini ci insegnavano: il furto del tempo è un reato, grave quanto qualsiasi altro. Si riferivano alle interruzioni durante le lezioni. Moltiplicando quel minuto perso per il numero dei ragazzi si ottenevano 15-20 minuti che nessuno di noi avrebbe potuto recuperare.
Gli eventi di sabato a Charlottesville non sono durati che un giorno. Ma pensate a quel giorno e moltiplicatelo per tutte le persone che abitano in questo grande Paese. Pensate alla portata di quella barbarie, al colpo che è stato inferto all’empatia, alla disgregazione, al terrore delle fiaccole — e moltiplicateli per ciascuno degli abitanti di questa nazione. In quella sola giornata sono forse andati persi miliardi di anni di dignità, di civiltà, di progresso.
Traduzione di Marzia Porta © 2017 The New York Times
Fonte: NATHAN ENGLANDER, LA REPUBBLICA[1]
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