USA, quali sono le origini del nuovo razzismo

by NADIA URBINATI | 14 Agosto 2017 10:00

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I CORI globali contro i suprematisti bianchi sono giustificati e legittimi. Ma hanno vita breve se non lasciano subito il posto a un’analisi sociale che faccia comprendere la rivolta di Charlottesville, in Virginia, dove un uomo ha lanciato l’auto contro persone che manifestavano pacificamente contro l’ideologia della supremazia bianca. Il razzismo, nel Sud degli Stati Uniti soprattutto, è stato allevato dalla questione sociale: disoccupazione, salari bassi, assenza di previdenza e assistenza — insomma il lavoro operaio bianco, sottopagato, sfruttato e spesso assente.

È una storia vecchia quanto l’America industriale, a partire dalla ricostruzione dopo la Guerra civile. Sviluppo industriale e liberazione degli schiavi sono andati insieme. Il movimento “ Knights of Labor” di fine Ottocento fu tra quelli che diedero vita al People’s Party, additato a esempio di buon populismo. Ma il romanzo sentimentale dei buoni lavoratori ha spesso celato il fatto che il populismo era indirizzato anche contro immigrati e neri. Per i lavoratori bianchi, ungheresi, italiani o irlandesi, i neri ex-schiavi non erano poi così buoni, erano “pecore nere” che gli industriali usavano per tenere bassi i salari e rompere gli scioperi. Razzismo e questione sociale sono alle radici di un’America che le rappresentazioni edulcorate di noi europei ignorano.

Eppure, sono queste le molle che hanno fatto il bene e il male della democrazia del mondo nuovo. Il male del razzismo, che esplode a intervalli regolari e non è mai stato debellato; il male del confederalismo dietro il quale ancora oggi i bianchi suprematisti degli Stati del Sud marciano, incappucciati o non, con le fiaccole dei cercatori di neri, come in Alabama, che accoglie i visitatori con la scritta “ We dared” (abbiamo osato). Ma sono state anche le molle del bene, le politiche di giustizia distributiva iniziate con il New Deal sono state pensate anche con l’intenzione di produrre un esito virtuoso: debellare il razzismo. Se non che hanno usato meccanismi con esiti opposti. Perché, racconta Ira Katznelson nei suoi studi sul New Deal e il razzismo, i democratici del Sud approntarono politiche sociali e occupazionali per rafforzare i lavoratori bianchi ed escludere i neri; per dare potere ai burocrati ostili all’emancipazione dei neri; per impedire che il linguaggio di anti-discriminazione entrasse nei programmi di welfare. Le politiche sociali legate al lavoro sono state volte a sostenere la manodopera bianca: in questo modo si pensava di rendere blando il razzismo.
Fu l’arruolamento dei neri insieme ai bianchi nella Seconda guerra mondiale che introdusse mutamenti in senso universalistico e inclusivo. Il G.I. Bill del 1944, pensato per aiutare i veterani bianchi a comperare casa e studiare, venne esteso anche ai veterani neri. La guerra mise fine alla giustificazione della segregazione nelle politiche sociali. Il lascito delle lotte per i diritti civili negli Anni ‘60 si materializzò nelle politiche di Jonhson, continuate da Nixon. Il razzismo si vestì di nuovi abiti, diventando reazione contro i diritti civili. E nonostante la retorica patriottica dei presidenti più recenti, il razzismo ha preso nuovo vigore in relazione soprattutto alle politiche pubbliche. Qui comincia la storia di questi giorni.
È un tema scottante e difficile da articolare senza essere accusati di razzismo indiretto. Ma deve essere affrontato perché l’ideologia white supremacist che ha armato il fanatico di Charlottesville trova linfa vitale nell’idea che le politiche federali di redistribuzione siano state pilotate da una giustizia al contrario, che per facilitare la formazione di una middle class nera si siano adottate scelte che con la crisi economica mostrano la loro limitatezza, e che provocatoriamente ora sono i bianchi a richiedere.
Provocatoriamente, ma non tanto. Le minoranze da metà Anni ‘70 hanno beneficiato di queste politiche che hanno consentito assunzioni negli uffici pubblici e privati e ammissioni ai college, grazie a clausole per cui, in alcuni casi, a parità di merito venivano agevolati candidati appartenenti a minoranze. Questa politica ha avuto un impatto notevole, e cambiato la faccia delle istituzioni che sono diventate più pluraliste. L’esito negativo di queste politiche sulla mentalità è tra i fattori che spiegano il white supremacism. Aiutare chi ingiustamente è stato escluso (per ragioni di schiavitù o di subordinazione di genere) con politiche che violano l’imparzialità ha i suoi costi. Una società ingiusta come era quella americana alla fine della Seconda guerra poteva difficilmente essere migliorata con politiche basate sull’imparzialità. Sarebbe stato opportuno sfoderare un altro tipo di coraggio, adottare politiche sociali universalistiche con interventi statali diretti a riqualificare le scuole pubbliche per poter aggredire l’ingiustizia all’origine, senza prestare il fianco alle prevedibili critiche dei bianchi. Sarebbe stata una scelta di più lungo respiro, ma troppo socialdemocratica per essere accettata dalla cultura politica Americana, liberal e non.
L’affirmative action è stata la politica di giustizia targata liberal. Ha prodotto inclusione (certo a macchia di leopardo, più al Nord che al Sud) ma ha sedimentato nel frattempo risentimento e rabbia contro i “beneficiari” di privilegi perché neri. E da quel risentimento si deve partire, oggi, per comprendere il carattere del nuovo razzismo, che è anche razzismo di reazione: dei diseredati e non benestanti bianchi contro gli ancora più diseredati e poverissimi neri. Poveri contro poveri, ma nel nome della razza mai della classe. E un nero assunto contro mille che mendicano basta a soffiare sul fuoco della rabbia dei lavoratori bianchi traditi da Washington: ecco la lotta per mantenere in un parco pubblico di Charlottesville la statua del generale Lee, il simbolo dell’esercito dei sudisti nella Guerra civile. Aveva ragione Tocqueville a pensare che la schiavitù avrebbe lasciato, come una piaga, un segno indelebile sul futuro della democrazia americana, anche qualora i neri fossero stati liberati dalle catene e dichiarati cittadini. Combattere in guerra li avrebbe aiutati, ma oggi la Seconda guerra è solo un lontano ricordo.

Fonte: NADIA URBINATI, LA REPUBBLICA[1]

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  1. LA REPUBBLICA: http://www.repubblica.it/

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