by Roberto Ciccarelli | 5 Agosto 2017 10:00
Dopo avere votato in massa l’introduzione del pareggio di bilancio nell’articolo 81 della Costituzione, la politica italiana ha scoperto di avere commesso un «grave errore». Lo ha ammesso cinque anni dopo il ministro dei trasporti Graziano Del Rio, stimolato da quanto ha scritto Matteo Renzi nella sua ultima fatica letteraria. Il segretario del Pd intende «rottamare» il Fiscal Compact, separandolo dai parametri di Maastricht e investire per diversi anni il 2,9% del Pil per abbassare le tasse, distribuire bonus e coprire le emergenze sociali prodotte dalla crisi. Si è arrivati al punto di leggere retroscena che attribuiscono all’attuale governo Gentiloni la volontà di «smontare il Fiscal Compact» a partire dalla legge di bilancio nel prossimo autunno. Anche il ministro dell’Economia Padoan ha riconosciuto che «il futuro Ue non si gioca sul Fiscal Compact», ma poi ha frenato: «Meglio puntare su una politica Ue per la crescita e gli investimenti». La risposta, precisa, è arrivata a stretto giro dal custode dei conti, l’austerico presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem: «Sarebbe fuori dalle regole di bilancio, non è una decisione che un Paese può prendere da solo, in questa Unione monetaria ci si sta insieme». Ma è contro questo muro di illusioni che la politica andrà a sbattere la testa, con le elezioni politiche alle porte.
Sussurri e slanci per lo più dettati dall’affannosa ricerca di una crescita che esiste, ma è sempre più elusiva in termini di occupazione e salari. In queste condizioni il proposito di Renzi di «ridurre il debito con la crescita» è una pia illusione. Sembrano passati millenni da quel 2012 quando il parlamento italiano votò in Costituzione, con una maggioranza assoluta composta dal Pd e Forza Italia in testa, la base fondativa della norma più temibile e rovinosa del Fiscal Compact («patto di bilancio»): abbattere il debito pubblico italiano al 132,8% del Pil al 60%, con un ritmo di 1/20esimo all’anno. Un incubo.
Era il tempo del «Fate presto», il tempo dello stato di emergenza per lo «spread», mentre il governo Monti imponeva tagli, austerità e riforma Fornero. Nessuno comprese il senso di quel voto che sfregiava la Costituzione repubblicana e il baratro che si spalancava davanti a più di 60 milioni di persone. Il Gattopardo italiano non si smentisce mai: gli stessi attori che azionarono il conto alla rovescia oggi vogliono invertire il corso del tempo da loro stessi voluto.
Un utile contributo a un dibattito non privo di ipocrisie è quello pubblicato ieri dall’ufficio parlamentare di bilancio[1]. In un «flash« di quattro pagine emerge la gravità della situazione. La possibilità di non recepire il Fiscal Compact nell’ordinamento nazionale «sembra giuridicamente molto limitato». «Confrontando i suoi contenuti normativi con la legislazione europea si ricava che, ad eccezione di poche limitate disposizioni, il set di regole fiscali del Fiscal compact è già incorporato nell’ordinamento dell’Unione Europea». Gli obblighi del patto di bilancio sono già contenuti in regolamenti e direttive altrettanto vincolanti per gli Stati membri dell’Ue. Anche senza applicazione di questo accordo intergovernativo – che secondo una clausola dell’articolo 16 del trattato sulla stabilità dovrebbe essere integrato nel trattato europeo sulla stabilità, coordinamento e governance dell’Ue entro 5 anni dal suo varo – «gli Stati firmatari del Fiscal compact continuerebbero a essere giuridicamente tenuti alla sua applicazione». La mancata applicazione del precetto non porterà a una sanzione, ma continuerà a vincolare giuridicamente gli Stati europei (25 su 27) che l’hanno sottoscritta. In altre parole, che sia o meno integrata in un trattato europeo, la norma principale dell’austerità votata dal parlamento nel 2012 continuerà a valere, obbligando tutti i governi a rispettarla, anche in mancanza della crescita com’era-un-tempo.
Come uscire da questo vicolo cieco? Con la politica, risponde l’ufficio parlamentare. Ovvero con il cambiamento di tutte le regole vigenti del bilancio in Europa. Per farlo c’è bisogno dell’unanimità dei membri dell’Ue. Schäuble e Merkel in Germania permettendo, questo è un vasto programma.
FONTE:
IL MANIFESTO[2]Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/08/93758/
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