by Rocco Cotroneo | 31 Luglio 2017 9:33
A colpi di arma da fuoco e menzogne il regime di Nicolás Maduro riesce alla fine nel suo intento: installare in Venezuela una Assemblea costituente monocolore con l’obiettivo, quasi dichiarato, di chiudere gli ultimi spazi di democrazia nel Paese. Mentre la crisi economica è devastante, una tragedia umanitaria sotto alcuni aspetti, il chavismo non arretra davanti al muro di no: la forte opposizione interna e il diffuso sgomento internazionale per il voto da partito unico voluto da Maduro. È una giornata di verità di segno opposto, e ancora una volta grondante sangue. Sono almeno dodici le vittime degli scontri avvenuti in varie città del Paese. Quasi tutti ragazzi e anche un candidato chavista all’Assemblea, ucciso in casa.
Una giornata iniziata con due giovani ammazzati a Merida quando ancora era buio e mentre stavano ostruendo una strada, e chiusa dalle dichiarazioni trionfalistiche del governo sul «processo impeccabile e democratico». Nel mezzo il tentativo quasi disperato dell’opposizione di riempire le strade della capitale Caracas, mentre le ronde della Guardia Nacional Bolivariana attaccavano a ondate in moto come fossero squadracce paramilitari, lanciando lacrimogeni ad altezza uomo, prendendo la mira anche su fotografi e giornalisti, per evitare la concentrazione della folla nei sei punti della città indicati alla vigilia dalla Mud, l’alleanza dei partiti di opposizione. Aggregare cortei alla fine è stato impossibile. Quindi gli appelli dei leader della rivolta a non tornare a casa, a restare comunque in strada, come ormai avviene in Venezuela da centoventi giorni filati. Uniche armi di comunicazione, nel deserto della censura radiotv, i social network e le riprese live con Periscope. «Se non è possibile marciare, continuiamo con i trancazos», insistevano, cioè le tecniche di piccolo sabotaggio per bloccare le strade: barricate, sacchi di spazzatura, togliere le grate agli scoli dell’acqua, mettere file di bottiglie di vetro di traverso sull’asfalto. La guerriglia a bassa intensità che ha fatto diventare questo confronto asimmetrico venezuelano una sorta di lunga Intifada, con 118 morti, quasi tutti oppositori. Mai una sparatoria sulla folla, ma uno stillicidio quotidiano di esecuzioni, una o due in media, quasi sempre senza far capire da dove è partito il colpo. Tenendo fuori il più possibile l’esercito. Per sfibrare una protesta che resiste, impassibile e senza temere il peggio.
Se per almeno quindici anni — comunque la si pensasse — il Venezuela è stato un Paese dilaniato, spaccato dal chavismo, ma con un certo equilibrio tra due mondi incomunicabili, oggi le immagini raccontano la disperazione finale di un regime che perde gli ultimi pezzi. Pochi elettori rassegnati davanti ai seggi, in alcune immagini arrivate dalla provincia persino scortati dalla polizia, il divieto alla stampa di fare domande o foto. Il trucco del «carnet de la patria», una tessera magnetica che serve a ricevere viveri per non morire di fame, davanti a stipendi che ormai valgono poche decine di euro al mese. Ebbene ieri la tesserina è servita a schedare chi ha votato e chi no, o almeno così ha minacciato Maduro ai dipendenti pubblici, e addirittura a poter depositare la scheda una seconda volta in un altro seggio. I sondaggi oscillano nel quantificare tra il 70 e l’80 per cento il no all’attuale regime, e ancor di più quando si parla di accelerazione verso il socialismo, che è poi l’obiettivo di questa Costituente «cubana». Al colpo di mano il regime non aveva alternative. A fine giornata come portavoce dell’opposizione ha parlato il presidente del Parlamento, Julio Borges. «Si stanno scavando la fossa, la disperazione di questa mossa è evidente. Per noi è un motivo di orgoglio aver disertato in massa i seggi della più grande frode della storia. Una tristezza vedere gente costretta a convergere in un impianto sportivo per abbellire la foto, come fossimo in Corea del Nord». La stima dell’opposizione è che l’affluenza ai seggi non abbia superato il 7 per cento alle 15, cioè due ore prima della chiusura. In pratica un milione di persone, contro i 7 milioni che il fronte anti Maduro dice di aver portato alle urne due settimane fa, in un plebiscito simbolico mai riconosciuto dal governo. Per il chavismo, invece, il Venezuela è un altro mondo, un altro film: «Tutto sta andando molto bene, ci sono soltanto piccoli problemi che stiamo risolvendo. Il 99 per cento dei venezuelani sta votando in pace e armonia», ha dichiarato Tibisay Lucena, la presidente dell’authority elettorale che dovrebbe essere indipendente. Le prime reazioni al voto in Venezuela sono arrivate dai Paesi vicini. Prima ancora che si chiudessero i seggi, Brasile, Messico, Colombia e Perù hanno fatto sapere che non accetteranno i risultati. Analoga dura presa di posizione dovrebbe arrivare dagli Stati Uniti, e forse in forma più sfumata dall’Unione Europea. Nei prossimi giorni potrebbero essere annunciate altre sanzioni di Washington: dopo quelle ai gerarchi del regime, stavolta toccherebbe alle importazioni di petrolio. Ancora una volta la Chiesa venezuelana ha bollato come illegittimo il voto.
Cosa può succedere adesso è difficile dire. La Costituente, per definizione, dovrebbe dominare tutti gli altri poteri dello Stato, a partire dell’attuale Parlamento dove l’opposizione è in maggioranza. Anzi, è stata inventata proprio per questo. Ma c’è chi sostiene che il nuovo organo, in mano all’ala dura del regime guidata da Diosdado Cabello, potrebbe finire per ridurre i poteri dello stesso Maduro. Il quale, sempre si dice, avrebbe trattato fino all’ultimo con l’opposizione sapendo che la fine del regime potrebbe approssimarsi.
FONTE: Rocco Cotroneo, CORRIERE DELLA SERA[1]
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