by Chiara Cruciati | 12 Luglio 2017 10:10
Mosul è libera, il «califfo» è morto: apparentemente è giornata di buone notizie per la polveriera siro-irachena. Ma dietro ai titoli dei giornali c’è il buco nero in cui Baghdad è risucchiata da 15 anni.
Ieri la stampa irachena riprendeva la notizia di Alsumaria News: lo Stato Islamico (nello specifico la sezione di Diyala, provincia occidentale irachena) avrebbe ammesso la morte di Abu Bakr al Baghdadi, invitando i propri uomini a continuare la lotta.
Conferme giungerebbero anche da Tal Afar: fonti della leadership ammettono l’uccisione del leader ma non dicono in quale occasione. E aggiungono: Daesh sta lavorando all’individuazione del successore. Non senza faide interne tra le anime del «califfato».
Da individuare ci sarà anche la nuova strategia militare e politica dell’Isis, colpito dalla graduale perdita di territorio ma ancora in grado di operare sia in termini di reclutamento che di guerriglia terroristica.
Al momento, oltre a Raqqa, la battaglia più dura è quella di Tal Afar dove l’Isis in fuga da Mosul ha trasferito leadership e struttura amministrativa.
Fuori premono le milizie sciite legate a Teheran, facendo immaginare un nuovo crudo scontro. La città, a metà tra la Siria e Mosul, è a maggioranza turkmena (da cui i tentativi turchi di imporre un intervento), minoranza che non nasconde il timore di abusi da parte sciita. Per questo le milizie sciite hanno accettato di non entrare a Tal Afar e lasciare il passo all’esercito.
Un simile clima è specchio del caos che è oggi il puzzle iracheno. Le paure della minoranza turkmena sono le stesse di quella, più consistente, sunnita. Ieri Amnesty International ha dato un primo quadro della situazione a Mosul nel rapporto «Ad ogni costo»: attraverso decine di interviste ai civili, accusa sia l’Isis che la coalizione anti-Isis di violazioni del diritto internazionale.
Daesh ha usato i residenti di Mosul ovest come scudi umani, li ha costretti a spostarsi da una comunità all’altra per utilizzarli come estrema difesa alla controffensiva governativa e gli ha impedito – con cecchini e mine – di scappare.
Dall’altra parte le forze statunitensi e britanniche, così come quelle governative irachene e le unità peshmerga (un totale di 100mila uomini), non hanno preso misure adeguate per tutelare la vita dei civili, usando armi pesanti in zone densamente popolate e modificando di pochissimo la strategia militare nonostante le caratteristiche della città vecchia di Mosul.
Il caso più eclatante è quello ammesso dal comando Usa in Iraq: almeno 200 morti nel bombardamento di alcuni edifici, lo scorso 17 marzo.
Di numeri precisi non ce ne sono. Prova a dare un bilancio, incrociando i dati dal posto con quelli ufficiali della coalizione, l’ong Airwars: da febbraio (quando la battaglia per Mosul ovest è partita) sarebbero 3.700 le vittime dell’offensiva.
Un numero sottostimato e a cui vanno aggiunti le centinaia, forse migliaia, di civili uccisi dall’Isis. «Gli orrori vissuti dalla gente di Mosul e il disprezzo per la vita umana da parte di ogni attore del conflitto non deve restare impunito – dice Lynn Maalouf, direttrice di Amnesty per il Medio Oriente – Intere famiglie sono state cancellate, molti sono sepolti sotto le macerie. La gente di Mosul merita verità dal proprio governo e giustizia».
Nessuna vendetta o punizione collettiva verso una comunità che ha subito morte e deprivazione, che oggi per bocca degli sfollati dice di non voler tornare nella città devastata. Riconciliazione, assistenza e inclusione, unica via per rimettere insieme i pezzi del puzzle iracheno prima che il paese scompaia ingoiato dalle potenze esterne
FONTE:
IL MANIFESTO[1]Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/07/93288/
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