Morta in Siria Ayse, un “cappuccio rosso” contro tutti i fascismi
C’è un lungo cammino che lega parco Gezi ad Istanbul alle piane attorno a Raqqa. Mentre nei giorni scorsi centinaia di persone marciavano nelle strade della Turchia in ricordo delle proteste di quattro anni fa, altri passi avevano condotto Ayse Deniz Karacagil, nome di battaglia Destan Temmuz, ben più lontano.
PRIMA IN CARCERE con una condanna di 98 anni per associazione terroristica figlia della sua partecipazione alle proteste, a cui era scampata grazie ad uno scricchiolio nella macchina della repressione: scarcerata prima che la condanna potesse essere definitiva. Quindi via tra le montagne di Qandil, accolta nelle file del Pkk, unica fuga dal carcere a vita.
Infine era giunta alle porte di Raqqa, “capitale” dello Stato Islamico, insieme ai volontari dello Ypg curdo. In quelle piane il lungo cammino di Ayse si è fermato il 29 maggio, ennesimo tributo di sangue versato nella guerra al Califfato.
La sua figura di giovane combattente è stata immortalata da Zerocalcare nel libro Kobane Calling: la ragazza dal cappuccio rosso, indossato mentre gridava nei megafoni dalle piazze turche.
AYSE ERA STATA in prima linea durante le proteste di Gezi, insieme a milioni di persone. Otto di loro hanno lasciato la vita sui selciati cittadini e oggi sono ricordati in minuti luoghi di memoria sparsi nei quartieri.
I loro nomi: Mehmet Ayvalitas, Abdullah Comert, Ethem Sarisuluk, Ali Ismail Korkmaz, Ahmet Atakan, Berkin Elvan, Burak Can Karamanoglu, Mehmet Istif, Elif Cermik. Gente scesa in piazza per proteggere un’area verde nel cuore di Istanbul, minuta, ma dall’enorme il valore simbolico.
PERCHÉ QUELLE PROTESTE, inattese e veementi, avevano presto assunto significati che andavano ben oltre la difesa di alberi: reclamavano diritti e libertà, sotto un cielo al cui orizzonte già s’intravedevano addensarsi le nubi nere di ciò che sarebbe giunto.
Molte parole sono state spese sull’eredità di quei giorni che vibravano di speranza e aspettative di cui oggi assistiamo ai sussulti, insopprimibili eppure fiacchi per una repressione che, anno dopo anno, si è fatta sempre più soffocante.
Spesso ci si chiede se sia possibile una nuova Gezi, una nuova ondata di sdegno ed energia che possa liberare il paese dal pugno di ferro in cui il presidente Recep Tayyip Erdogan l’ha serrato.
Probabilmente questo pugno di ferro è la più indesiderata delle eredità di parco Gezi. I passi della rivolta erano corsi veloci nelle strade, cogliendo impreparate le autorità che, dopo giorni di inerzia, avevano infine reagito nel solo modo in cui il potere sa rispondere: con la violenza.
LE PAROLE DELLA RIVOLTA erano corse veloci sui social media, luogo allora pressoché inesplorato dal potere e verso cui avrebbe presto puntato il dito. L’intolleranza liberticida di oggi verso giornalisti, attivisti e cittadini, arrestati e condannati per aver scritto o parlato fuori dalle grazie del capo, si nutrono sì da una lunga tradizione nazionale di ostilità verso il libero pensiero, ma sono state acuite dallo choc subito dal potere proprio in quei giorni.
Uno choc che il governo non vuole si ripeta e i 98 anni comminati ad Ayse ne sono lo specchio. Si è dotato di leggi speciali, di uno stato di emergenza che assomiglia sempre più a uno stato di diversa normalità; ha rivoltato lo Stato come un calzino per rendere la macchina letale e obbediente; ha riscritto la Costituzione a colpi di mercanteggiamenti in parlamento e schede invalide nelle urne referendarie.
MA QUEL CHE È CAMBIATO, soprattutto, è nella testa della gente comune. I sogni continuano a vivere, ma la rivolta di parco Gezi allora correva sull’onda dell’entusiasmo di chi vede il cambiamento a portata di mano, la allunga per afferrarlo, convinta che i tempi siano maturi.
OGGI SERVE IL CORAGGIO di ribattere colpo su colpo ad un potere che sfoggia disprezzo e solleva nuovi minareti in piazza Taksim, insultando così la sua stessa religione. Serve quel coraggio che, da parco Gezi, conduce fino alle piane di Raqqa.
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