Reportage dall’inferno per migranti in Libia
Storie di persone in fuga da guerre e fame, che dopo aver attraversato il deserto subiscono lunghe detenzioni illegali, private di ogni diritto
TRIPOLI. Si sentono ripetere le stesse domande come una martellante litania, in attesa di una risposta che nella migliore delle ipotesi arriva dopo mesi. Le detenzioni arbitrarie in Libia sembrano legalizzate.
Silenzio, oscurità e solitudine accompagnano il già duro viaggio di migliaia di famiglie che provano a fuggire da guerra, persecuzione, violenza, fame.
Tra gabbie, sbarre e temperature che sfiorano i 38 gradi, le voci dei migranti scandiscono nei vari dialetti «Perché sono qui? E quando posso uscire?».
SIAMO BLOCCATI nel vortice dell’Abu Salim Detention Centre, nell’omonimo distretto di Tripoli, dove le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), parlano di almeno 6 mila migranti detenuti.
L’ottenimento di decine di permessi rallentano l’attività sanitaria, monitoraggio e iter giudiziari nei 44 centri di detenzione dichiarati dai libici, di cui 24 gestiti direttamente dal governo di al-Sarraj. Ore e ore di inutile attesa, il tempo non esiste. Il tempo è lo stesso momento che si vive.
LE PARTENZE DEI MIGRANTI dalle coste libiche non si fermano mai. Migliaia di persone continuano ad arrivare in Libia ogni giorno. Molti cercano di nascondersi, aspettando di salire su un vecchio peschereccio, dopo aver pagato la somma richiesta dal trafficante di turno, per affrontare i 470 chilometri di mare che separano la Libia dall’Italia, diventati un cimitero per più di 4.500 persone nel 2016 e già quest’anno per più di 1.500 persone .
Ma la maggior parte della gente rimane intrappolata nel limbo dei centri di detenzione. La situazione legale in Libia si districa tra leggi incostituzionali e leggi transitorie, frutto del conflitto in corso e dell’eredità dell’era Gheddafi.
Il risultato è che oggi migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono tutti considerati illegali, e dunque soggetti a multe, detenzione e espulsione, in base a vecchie leggi del 1987 e del 2004.
Le multe arrivano fino a 1.000 dinari libici (circa 700 euro), che salgono alle stelle se si è sprovvisti di documenti d’ingresso. Le detenzioni prevedono lavori forzati e si concludono praticamente sempre con l’espulsione dal territorio libico. La durata della prigionia per un migrante è arbitraria e imprevedibile, può durare da qualche mese a due anni.
LO SPAZIO DI UNA CELLA pensato per quattro persone, viene condiviso da 20 donne e 20 bambini, stipati uno accanto all’altro. Anche i quattro angoli della stanza sono occupati da decine di materassi buttati caoticamente a terra.
Le mamme pettinano i capelli alle bambine che disorientate mostrano fiere i piedi nudi. Non ci sono giocattoli, né acqua sufficiente per tutti. 5 bagni per 150 persone. I detenuti sono spesso costretti a defecare e urinare nelle loro celle.
«HO PARTORITO IL MIO BAMBINO in uno di questi lerci gabinetti. Era ricoperto di sangue e stava morendo soffocato». Ce lo racconta in piedi di fronte all’odore nauseabondo di quelle latrine, un odore che brucia perfino gli occhi. Un misto di acido, escrementi e urina, lavati da secchiate di acqua stagnante.
«Quell’immagine mi perseguita» continua. Nessun medico è corso a raccogliere Naalia e suo figlio quel giorno. Nessun trattamento privilegiato: il pasto era sempre di 400 calorie e il latte era giallastro e allungato con l’acqua delle pozze.
Ogni guardia carceraria ha il suo kalashnikov in mano, ci giurano che portano fuori i bambini una volta al giorno. In verità i bambini escono una volta ogni quattro. Fuori c’è una grande area aperta, dove rimangono a fare niente per un paio di ore, circondati da recinzioni di filo spinato.
CI SEDIAMO accanto al materasso su cui ha dormito per dieci mesi e Victor ci racconta: «Mi hanno arrestato a Garabulli». Vorrebbe dire alla sua famiglia che è ancora vivo, ma non può. All’arresto i soldati libici confiscano tutti i telefoni, così l’unica forma di comunicazione rimasta viene interrotta.
Victor arriva dalla città di Kano, nord-ovest della Nigeria. «Ho pagato 2 mila dollari per attraversare il Niger, sulla via di Agadez. Poi sono arrivato a Sabha in Libia e per altri 700 mi hanno portato a Garabulli».
PRIMA DI RISCHIARE LA MORTE nel Mediterraneo e prima di attraversare i campi di battaglia della guerra civile libica, la maggior parte degli immigrati dall’Africa occidentale passa per Agadez, dove si può arrivare in autobus da qualunque località. È il bordo più settentrionale della cosiddetta zona Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale), simile alla nostra area Schengen, in cui si può viaggiare senza il visto.
A Agadez tutti i conducenti di bus si fermano e inizia il contrabbando di persone alla volta deldeserto. Solo alcuni selezionati autisti locali sanno quali dune conducono al Sahara e quali alla morte. In due settimane si arriva a Sabha, senza cibo né acqua.
FINO A 2 MILA MIGRANTI provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana attraversano la Libia ogni settimana, dal posto di controllo di frontiera del villaggio di Tumo, tra Niger e Libia, uno dei tre punti principali di ingresso, pattugliati dall’esercito libico, insieme a Ghat e Ghadames.
Quando Victor racconta i dettagli del suo viaggio i suoi occhi sembrano persi nel vuoto. «Nessun medico viene al centro», ci dice. Non si riesce ad avere un elenco dettagliato di quanti si trovano nelle celle dell’Abu Salim. Nessuno viene informato della ragione per cui viene rinchiuso. Non esiste alcuna registrazione formale, nessun processo legale viene espletato e non è consentito parlare con le autorità giudiziarie.
Solo una volta al mese in una clinica mobile vengono controllate malattie della pelle, episodi di diarrea, infezioni respiratorie e urinarie. Il sistema sanitario in Libia è prossimo al crollo con mancanza cronica di medicinali, apparecchiature medicali e personale.
VICTOR INTANTO CONTINUA il suo racconto: «Dopo 4.000 chilometri, a Garabulli ero pronto ad imbarcarmi insieme a centinaia di altri poveri cristi. Spesso la guardia costiera, costantemente minacciata dai trafficanti, chiude gli occhi. Quella volta ci hanno presi e ci hanno portati a Abu Salim».
Lì ha lavorato per la loro agricoltura, ha trasportato con le catene alle mani sabbia e pietre, ha partecipato alla pavimentazione delle loro strade e alla costruzione dei collettori per i rifiuti. Schernito, maltrattato, violentato e picchiato. È stato trattenuto in prigione perché non aveva soldi sufficienti per pagare la polizia corrotta, custode di sporchi fili spinati.
Come ne escono? Le guardie forniscono un telefono super-lusso au dernier cri ai detenuti e li forzano a chiamare i propri parenti per chiedere loro di trasferire ingenti somme di denaro e comprare così la libertà.
E si continuano ad ascoltare in silenzio queste storie con il gelo che si infiltra nelle ossa. La sensazione è solo quella che ciascuna detenzione sia completamente illegittima.
FONTE: Federica Iezzi, IL MANIFESTO
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