by Andrea Capocci, il manifesto | 4 Giugno 2017 10:03
Sotto tiro il Greenhouse Gas Reporting, che dovrebbe monitorare le emissioni degli impianti industriali
La cittadina di Benham, contea di Harlan, ospita il Museo delle miniere di carbone del Kentucky. Nel 1950, oltre tredicimila lavoratori (un abitante della contea su cinque) erano impiegati nelle miniere di carbone della zona. Oggi i lavoratori del settore sono solo settecento e la disoccupazione doppia rispetto alla media nazionale. Ma nonostante il declino, il legame sociale con l’industria mineraria non si è sciolto: l’85% degli elettori della contea ha votato Trump proprio per le promesse sulla resurrezione dell’economia del carbone.
QUEST’ANNO, il museo ha preso una decisione soprendente: l’installazione dei pannelli fotovoltaici sul tetto. «Il progetto ci permetterà di risparmiare tra gli otto e i diecimila dollari solo per questo edificio», ha spiegato Brandon Robinson, portavoce del college che gestisce il museo. «È alquanto paradossale ma carbone, energia solare e tutte le altre fonti lavorano mano nella mano. E da queste parti il carbone è ancora il re». Questo piccolo aneddoto di provincia illustra benissimo l’attuale dibattito di analisti e scienziati sulla decisione del presidente Donald Trump di ritirare la firma degli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi. La decisione è stata accolta come uno schiaffo alla comunità scientifica che un mese fa era scesa in piazza per la «March for Science». Allora, tra le trecento e le seicentomila persone avevano manifestato al fianco degli scienziati per opporsi al negazionismo di Trump, che considera il mutamento climatico una bufala messa in circolazione dai cinesi per danneggiare l’economia statunitense.
Gli striscioni dei manifestanti chiedevano di anteporre le ragioni della scienza e della responsabilità a quelle dell’economia. Oggi, invece, gli scienziati umiliati da Trump ritengono (o sperano) che sarà proprio la mano invisibile del mercato a fermare Trump.
«Gli amministratori delegati delle principali società petrolifere solo allarmati dal problema del mutamento climatico e premono perché vengano adottate misure correttive. Gli azionisti della ExxonMobil hanno deliberato che la società mostri maggiore responsabilità sulla questione del riscaldamento globale» ha dichiarato Jeffry Kargel, climatologo dell’università dell’Arizona, allla rivista Science.
SIMILE IL PARERE di un suo collega, Dave Reay dell’università di Edimburgo: «La decisione non è dovuta tanto al calo dell’utilizzo del carbone, quanto mette a rischio gli interessi commerciali ed economici statunitensi».
In molti, anche tra gli scienziati, ritengono infatti che la scelta di Trump di puntare sul carbone sia errata dal punto di vista economica ancor prima che da quello ambientale. Il declino del carbone è giudicato da molti inarrestabile. Durante l’amministrazione Obama, la percentuale di energia elettrica generata bruciando carbone è calata dal 52 al 30%. Merito soprattutto dello shale gas, il gas naturale ricavato dalla frattura delle rocce sotterranee, che costa e inquina meno e aveva consentito agli Stati Uniti di giocare un ruolo di traino negli accordi internazionali sul clima.
L’industria del carbone oggi crea meno posti di lavoro delle energie rinnovabili. Il declino degli occupati nelle miniere, inoltre, è stato accelerato dall’automazione che ha sostituito il lavoro umano. Anche se il carbone riguadagnasse quote di mercato, l’impatto occupazionale sarebbe dunque ridotto.
NON TUTTI GLI SCIENZIATI però credono davvero che l’economia da sola possa risolvere la crisi climatica o, ancor meno, che le grandi società petrolifere si riconvertiranno volentieri. Proprio ieri, Peter Frumhoff, direttore della Union of Concerned Scientist (Unione degli scienziati responsabili, con oltre duecentomila iscritti) ha messo in guardia dalle promesse delle grandi aziende del settore petrolifero, che in questi anni hanno cercato di darsi un’immagine più eco-compatibile.
Nonostante lo stesso amministratore delegato della ExxonMobil Darren Woods abbia pubblicamente chiesto a Trump di mantenere gli impegni presi a Parigi, le emissioni di gas serra di tutte le società petrolifere aumenteranno nei prossimi decenni, secondo le previsioni delle stesse società. Secondo Frumhoff, occorre attendersi «aumenti nelle temperature globali medie dell’ordine dei tre o quattro gradi in questo secolo, con un aumentato rischio che il mutamento climatico diventi catastrofico».
LA MOSSA DI TRUMP non è comunque un’alzata di ingegno isolata. Trump ha il sostegno del suo partito, che nei giorni precedenti aveva reso pubblica una lettera firmata da 22 deputati che chiedevano al presidente di uscire dall’accordo di Parigi. La guerra tra scienziati e partito repubblicano, in realtà, è iniziata ben prima di questa amministrazione. A più riprese, durante il mandato di Obama, i rappresentanti conservatori avevano accusato gli scienziati del clima di falsificare i dati per ingigantire l’allarme sul riscaldamento globale.
IN PARTICOLARE, il partito repubblicano aveva puntato il dito contro il National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa), che in una ricerca pubblicata a ridosso del summit di Parigi avrebbe nascosto il fatto che il riscaldamento globale ha rallentato dopo il 2000 – successive ricerche hanno confermato le analisi del Noaa.
Il prossimo futuro prevede nuove occasioni di scontro. La legge finanziaria del 2018 appena proposta da Trump prevede tagli per l’agenzia per la protezione ambientale (Epa) pari a un terzo, riportando l’agenzia al finanziamento che aveva nel 1970 (quando di riscaldamento globale ancora non si parlava). Tra i programmi da eliminare, nel mirino di Trump c’è proprio il Greenhouse Gas Reporting Program, che dovrebbe monitorare le emissioni degli impianti industriali e il Clean Power Plan di Obama, il piano che dovrebbe ridurre le emissioni delle centrali energetiche del 32% entro il 2025. Un quinto dei quindicimila dipendenti dell’agenzia potrebbero perdere il loro posto di lavoro.
Tagli analoghi riguarderanno altre agenzie scientifiche, come i National Institutes of Health (Nih, -18%) o il Centro di controllo e prevenzione delle malattie (Cdc, -17%). Secondo una ricerca citata dalla rivista Science, se i tagli fossero confermati provocherebbero la perdita di circa novantamila posti di lavoro. Per essere approvata, però, la legge finanziaria dovrà ricevere il voto favorevole di 60 senatori. Al momento, ai repubblicani ne mancano otto. Ciò fa pensare che la proposta verrà assai smussata per ottenere il consenso necessario.
EPPURE, LA DECISIONE di disdire l’accordo di Parigi sul cambiamento climatico potrebbe non avverarsi mai. L’accordo prevede che gli stati membri non possano ritirare la loro adesione prima del 5 novembre 2020, cioè due giorni dopo le prossime elezioni statunitensi. Dunque, per portare a termine l’uscita Trump deve sperare di essere rieletto nel 2020, cosa tutt’altro che scontata in questo momento. Tuttavia, le conseguenze della decisione saranno reali.
Per esempio, ne soffrirà il Green Climate Fund, un fondo istituito dopo la conferenza di Cancun del 2010 a cui dovrebbero attingere i paesi in via di sviluppo come indennizzo per le conseguenze dirette del riscaldamento globale, dalla siccità all’innalzamento del livello del mare. Dopo l’accordo di Parigi, Barack Obama aveva impegnato gli Stati Uniti a versare tre miliardi di dollari nel fondo. Finora, ne hanno versato solo uno. Dopo la decisione di Trump, è improbabile che arrivino altre rate.
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