Ue. Una nuova missione: blindare il confine sud libico

Ue. Una nuova missione: blindare il confine sud libico

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Prima c’è stata la lettera inviata l’11 maggio scorso alla Commissione europea (ma della quale si è avuta notizia solo domenica) dai ministri degli Interni di Italia e Germania Minniti e De Maiziere. Poi l’intervista, apparsa sempre domenica sul Corriere della Sera, di Abdulsalam Kajman, vice del premier libico al Serraj. Due iniziative con un obiettivo comune, anche se spinte da motivazioni differenti: sollecitare nel Sud della Libia un intervento dell’Unione europea capace di fermare il flusso di migranti diretti in Europa. E la risposta non si è fatta attendere. Così, mentre ieri mattina il titolare del Viminale volava a Tripoli per incontrare il premier Seraj proprio la Libia, e più in generale l’Africa, è stato uno dei temi al centro del vertice dei ministri degli Esteri dei 28 che si è tenuto a Bruxelles, con Federica Mogherini che ha definito «giusto» l’appello di Berlino e Roma per un maggiore impegno europeo nel Fezzan. «Lo stiamo già facendo con le operazioni in Niger e Mali – ha spiegato la rappresentante per la politica estera dell’Ue -. Abbiamo anche una missione dell’Unione europea a guida italiana, che si occupa in modo specifico del rafforzamento delle frontiere della Libia. Penso che rafforzarla sarebbe una buona idea».

Sigillare il confine meridionale della Libia diventa così la nuova missione di Bruxelles, che punta alla creazione di una guardia di frontiera libica sul modello della nuova guardia costiera del paese che sarà operativa a giugno. Peccato che i confini di terra siano diversi e più difficili da controllare di quelli di mare: 5.000 chilometri lungo le frontiere con Niger, Ciad e Algeria attraversate da ogni genere di contrabbando oltre che da decine di migliaia di migranti provenienti dai paesi subsahariani. Un territorio enorme in mano a tre tribù, Tebu, Suleyman e Tuareg, le prime due delle quali fino a poco tempo fa in guerra tra loro. Anche solo ipotizzare una qualunque iniziativa senza il loro coinvolgimento sarebbe impossibile. Per questo il 31 marzo scorso, quando al Viminale è stato raggiunto un accordo di pace tra i rappresentanti dei Tebu e dei Suleyman, il ministro Minniti forse ha pensato che il più fosse ormai fatto. Sei settimane dopo, invece, quello che era stato salutato come un successo si è rivelato se non un fallimento, quanto meno difficile da realizzare. Da qui la decisione di Minniti e De Maiziere di scrivere alla Commissione Ue chiedendo di intervenire «il più presto possibile». Con il vice di Serraj, Kajman, che avverte Bruxelles: «Se non risolviamo i problemi del Sud della Libia, non risolveremo la questione dei migranti».

Il fatto è che in Libia niente è semplice. In cambio dell’accordo di pace, l’Italia ha promesso alle tribù del Fezzan mezzi e aiuti economici. Un modo per convincerle non solo a non farsi più la guerra tra loro, ma anche a smettere di collaborare con i trafficanti di uomini, che oggi rappresentano la prima fonte di reddito per la regione.

Gli ostacoli nascerebbero dalla difficoltà di finanziare direttamente le tribù. Farlo significherebbe riconoscerle come soggetti istituzionali – cosa che non sono – rafforzandole politicamente. E questo non piacerebbe né a Tripoli né a Tobruk. L’unica strada percorribile sarebbe quindi quella di coinvolgerle nel processo di pace del paese. E ieri Minniti avrebbe chiesto a Serraj di intervenire con il suo vice Kajman, garante per la tribù del Fezzan, convincendolo a fare pressioni in tal senso con i rappresentanti locali.

Con il premier libico Minniti ha poi discusso della formazione di personale libico specializzato nelle sicurezza delle frontiere sempre allo scopo di contrastare l’immigrazione, ma anche delle strumentazione da fornire al paese nordafricano.

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