«La guerra al terrorismo non funziona», Corbyn dice una verità scomoda e cresce nei sondaggi
LONDRA. A cinque giorni dallo strazio terroristico presso l’Arena di Manchester, la campagna elettorale più critica della storia politica recente della Gran Bretagna ha riaperto in pieno. E mentre a Taormina una Theresa May imbestialita rappezzava la special relationship, dopo che l’amico americano aveva fatto trapelare alla stampa informazioni preziose e immagini sensibili dell’attentato, Jeremy Corbyn ha finalmente infranto il tabù atlantico che ha sempre fatto del partito laburista un’appendice interventista di Washington in tutto speculare a quella dei conservatori.
In un discorso tenuto nella sala di 1 Great George Street di Londra – la stessa in cui Ed Miliband tenne il suo discorso di dimissioni dopo la sconfitta del 2015 – Corbyn l’ha cantata chiara a tutti i sicofanti, dentro e fuori il suo partito, che hanno bombardato di pace e democrazia il medio oriente rendendolo una polveriera di risentimento antioccidentale, primo fra tutti l’ex sommo leader Blair, per le cui porcherie militari aveva peraltro già chiesto scusa al martoriato popolo iracheno.
«Molti esperti, compresi professionisti nei nostri servizi di sicurezza e intelligence – ha detto il segretario laburista – hanno indicato le connessioni tra le guerre nelle quali siamo stati coinvolti o che abbiamo sostenuto o combattuto, in altri paesi e il terrorismo sul territorio nazionale. I terroristi saranno per sempre disprezzati e chiamati implacabilmente a rispondere per le loro azioni. La colpa è la loro; ma se dobbiamo proteggere il nostro popolo dobbiamo essere onesti su quanto minaccia la nostra sicurezza». Parole indigeste per i tories, in particolare per il ministro degli esteri Johnson, che le ha definite «mostruose».
Insomma, quella che, attingendo all’immaginario dei fumetti Marvel, è stata definita war on terror, non solo non funziona, ha denunciato Corbyn, fa solo danni. Anche per questo, Brexit o non Brexit, è d’incalcolabile importanza che in sella al paese più imperialistico d’Europa vada un leder come lui e non l’ennesimo, volenteroso paggetto di Washington.
Parole, queste del segretario, che non hanno mai fatto parte del lessico laburista, e che vanno ad aggiungersi ai contenuti finalmente socialisti del manifesto del partito, dal lancio del quale, poco più di una settimana fa, il Labour ha cominciato una risalita che già profuma di epico. Sì perché ora è ufficiale crederci, come lo è stato nell’estate del 2015, quando l’astronave Corbyn atterrava in direzione e nello sbigottimento generale dei tecnocrati che se ne erano impossessati: il partito ora è a soli cinque punti dai tories. Sempre tanti, ma quasi nulla rispetto a quei 24 sui quali Theresa May aveva deciso il blitzkrieg delle elezioni anticipate pur di infliggere al paese altri dieci anni di un toryismo determinato a portare avanti la riscossa dei ricchi contro i poveri iniziata dalla coalizione con i Libdem, nel 2010.
Il cosiddetto sondaggio dei sondaggi, la media di tutte le intenzioni di voto, dà il partito laburista al 35% contro il 44 dei conservatori.
Sarà stato questo imbarazzante dato, nonostante la sobria e compunta gestione del dramma di Manchester da parte di Theresa May, a indurre David Davis, il ministro per la Brexit, a cancellare ieri mattina l’evento che doveva riaprire ufficialmente la loro campagna, al culmine di una settimana disastrosa? Certo, mai come di recente i sondaggi si sono rivelati del tutto fuorvianti. Ma il loro significato politico pesa eccome: per Corbyn, il 35% significa cementare la sua leadership anche in caso di sconfitta: Ed Miliband si era fermato al 30,4%. Ed è una rimonta riflessa anche nelle quotazioni personali dei rispettivi leader: laddove la «forte e stabile» May torreggiava sul «ridicolo e incompetente» Corbyn con un inattaccabile 52%, ora il margine si sta sciogliendo come l’Artico al sole: è al 17%.
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