by Andrea Ranieri, il manifesto | 30 Maggio 2017 8:47
Nel suo libro, “Insieme”, Richard Sennet mostra, con dovizia di esempi, come stimolare la competitività dentro le imprese renda difficile reagire alle crisi
Eviterei di discutere dell’intervento all’Ilva di Papa Francesco come se il centro del suo intervento fosse stata la contrapposizione fra diritto al reddito e diritto al lavoro. Perché anche chi sostiene il diritto al reddito non lo ha mai pensato come una misura sostitutiva alla necessità di creare lavoro.
E perché il lavoro a cui pensa chi il diritto al reddito lo contrasta è radicalmente diverso da quello a cui pensa il Pontefice. Dignitoso, stabile, con la possibilità di tanto tempo libero, a partire dalla domenica, con un salario che permetta una vita libera dall’incubo della miseria. Il contrario del precariato e dei voucher, che chi ci governa vorrebbe reintrodurre per legge, dopo averli abrogati per sottrarsi al giudizio del referendum.
Il sostegno al reddito per i disoccupati è la condizione per sottrarsi al ricatto che costringe ad accettare lavori senza diritti e con un salario al di sotto del livello minimo di sussistenza. Quei lavori cioè che Francesco ha bollato come indegni di uno Stato civile. La portata rivoluzionaria dell’intervento all’Ilva sta nel modo un cui ha parlato della figura dell’imprenditore, di competitività e di meritocrazia, mettendo sotto accusa un po’ di parole e di pratiche che sono ormai entrate nel senso comune diffuso, anche a sinistra.
L’imprenditore che risolve i problemi della sua azienda licenziando non è un imprenditore ma un “commerciante”, e dei peggiori, perché tratta come una merce le persone che lavorano. E la competitività nella gestione dell’impresa è un disvalore perché mina la fiducia e la collaborazione fra i lavoratori. Sembra quasi che papa Francesco abbia letto Richard Sennet che nel suo recente libro, Insieme, ci mostra con dovizia di storie e di esempi come lo stimolare la competitività dentro le imprese, la lotta di tutti contro tutti per emergere ed affermarsi, renda le imprese impotenti a reagire alle crisi e insieme incapaci di innovazione produttiva ed organizzativa. La sostituzione della competizione alla cooperazione nella teoria e nella pratica organizzative è una delle cause non ultime della crisi che stiamo attraversando.
Lo stesso per la meritocrazia. Anche qui Francesco sembra conoscere le ragioni che animarono chi ha introdotto il termine. Un vecchio sociologo old labour, ferocemente antiblairiano, Michel Young, che scrisse un libro di fantasociologia, L’origine della meritocrazia, per mostrarci a quali orrori può arrivare una società in cui redditi e potere vengano distribuiti sulla base dei quozienti di intelligenza. La meritocrazia, ci ha detto il Papa, serve a colpevolizzare i perdenti, a voltare le spalle ai poveri e a chi resta indietro, nella scuola, nella società, nei luoghi di lavoro.
Ci pare quella che ha fatto domenica Francesco sia una operazione non banale. Perché ha messo in discussione concetti che hanno attraversato e impregnato anche il campo della sinistra storica. La competività come regolatrice dei comportamenti delle imprese nel mercato e nell’organizzazione del lavoro, e la meritocrazia come modo per regolare le posizioni di potere e di reddito dentro l’economia e la società. E Francesco pare non curarsi proprio della compatibilità economica delle sue affermazioni. Perché l’economia che ci impone le sua compatibilità come fossero una necessità naturale è una economia “astratta”, che volta le spalle di fronte ai “volti” di chi lavora e di chi è disoccupato, alla povertà e all’ambiente. Ed è quella che spinge al consumismo e al debito delle persone e degli Stati come norma del suo funzionamento.
C’è bisogno di un’altra economia sembra dirci Francesco. Che inizi dal valore d’uso delle cose, e dalla dignità delle donne e degli uomini che lavorano come variabile indipendente. Un bel compito, se ne abbiamo la voglia e le forze, per la sinistra che lavora a ricostruirsi.
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