Tortura al Senato: passa la «legge truffa»
Senato. Casson: «Sarà una corsa ad ostacoli, applicarla». Ddl «provocatorio e inaccettabile» secondo l’appello firmato anche dal pm Zucca, Cucchi e Guadagnucci
La montagna ha partorito il topolino. Dopo tanti rimpalli, veti incrociati, out out da parte di alcuni sindacati di polizia megafonati dalle destre estreme e di centro, il Senato ieri ha licenziato – con 195 sì, 8 voti contrari e 34 astensioni – un testo che molti di coloro che si battono da anni per introdurre il reato di tortura nell’ordinamento penale italiano non temono di definire «una legge truffa».
La definizione è dei sottoscrittori di un appello firmato tra gli altri dal pm che indagò sulle violenze nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001, Enrico Zucca, dal giornalista Lorenzo Guadagnucci che in quella scuola venne torturato insieme a tanti altri dalle forze di polizia, e da Ilaria Cucchi, sorella di Stefano che nel 2009 morì con atroci sofferenze mentre era sotto la custodia dello Stato. L’appello, che bolla il ddl come «provocatorio e inaccettabile», si rivolge «ad Antigone, ad Amnesty International, alle associazioni, a tutte le persone di buona volontà», chiedendo loro «di battersi con ritrovata fermezza affinché la Camera dei deputati cambi rotta e il Parlamento compia l’unica scelta seria possibile, ossia il ritorno al testo concordato in sede di Nazioni Unite».
Con diversi toni ma simili motivazioni, alcuni senatori si sono astenuti, solo perché di votare contro una legge necessaria all’Italia per rientrare nella legalità internazionale non se la sentivano. Astensioni a volte prevedibili, come nel caso di Sinistra Italiana, a volte meno scontate, come quella del presidente della commissione Diritti umani, il dem Luigi Manconi, o l’ex magistrato Felice Casson, passato con Mdp, che non hanno partecipato al voto in aperto dissenso con i loro partiti.
Una legge dal travaglio lungo – malgrado sia tra le più facili da scrivere, perché la fattispecie è dettata chiaramente dalla Convenzione Onu ratificata dall’Italia nel 1988 -, iniziato a marzo 2014 nel peggiore dei modi proprio al Senato, e che non si è ancora concluso. Infatti il testo approvato ieri dalla maggioranza di Palazzo Madama dovrà tornare ora, per la quarta lettura, alla Camera, dove era già stato rimaneggiato e licenziato nell’aprile 2015, in una versione migliore di quella attuale. Il pericolo – difficile però dire se sia il peggiore possibile – è che nel ping pong si arrivi a fine legislatura. E arrivederci legge sulla tortura.
Un rischio che il ministro della Giustizia Andrea Orlando vorrebbe evitare: «È stato compiuto un passo decisivo che ci consente finalmente di sbloccare una fase di stallo durata troppo – ha commentato in una nota il Guardasigilli – Il testo, frutto delle necessarie mediazioni parlamentari, ci avvicina all’obiettivo di introdurre nel nostro ordinamento una nuova figura di reato, su cui anche molti organismi internazionali sollecitano da tempo il nostro Paese. Ora l’auspicio è che la Camera approvi in tempi rapidi e in via definitiva la legge, colmando cosi un vuoto normativo molto grave».
Allo stato dell’arte, il «compromesso» raggiunto tra chi pretende l’impunità completa delle forze dell’ordine e chi si batte per un provvedimento che rechi giustizia alle vittime degli agenti e dei pubblici ufficiali, è tutto definito dall’articolo 1 della legge che introduce il nuovo reato nell’ordinamento penale con gli articoli 613 bis e 613 ter. Il primo comma restringe, rispetto al testo della Camera, la fattispecie del reato («violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà» che cagionano «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico») e delimita la punibilità: «è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è compiuto mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» (nelle Convenzioni Onu i trattamenti sono inumani o degradanti, e non occorrono più condotte; inoltre, come sostiene l’appello contro la «legge truffa», «la possibilità di prescrizione permane»).
Nel testo, la pena sale da 5 a 12 anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nelle sue funzioni, e arriva a 30 anni di reclusione nel caso di morte «non voluta» del torturato; ergastolo se il decesso è nella volontà del torturatore. La pena però «non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Un passaggio, quest’ultimo, «decisamente superfluo» (lo sottolineano i senatori di SI) ma necessario per tranquillizzare certi sindacati di polizia.
Scritta così, «tecnicamente male», secondo l’ex pm e giudice istruttore Felice Casson, «è inapplicabile», soprattutto perché «le condizioni poste alla punibilità, reintroducendo il concetto di reiterazione del reato, renderanno i processi una corsa ad ostacoli sempre più complicata». Anche il M5S parla di «formule che annacquano il testo», ma alla fine opta per il voto a favore. Per l’associazione Antigone, il ddl è «molto confuso, pasticciato, arzigogolato». In una parola: limitato, se non inutile. La palla passa ora alla Camera, in una corsa contro il tempo. Anche se una soluzione ci sarebbe: tornare al testo concordato in sede internazionale fin dal 1952.
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