Libia, torture e sevizie sui migranti

Libia, torture e sevizie sui migranti

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Corpi cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Bastonate sulle piante dei piedi fino a spaccarli. Lesioni alle gambe, alle braccia. Sevizie di ogni tipo. Cadaveri abbandonati come spazzatura per le strade. È un racconto dell’orrore quello che alcuni migranti sopravvissuti a un naufragio hanno fatto agli investigatori dopo essere sbarcati a Lampedusa, a metà aprile. Il luogo delle torture è un’ex base militare, la chiama la «casa bianca» per il colore dei muri. Si trova a Sabratha, uno dei porti clandestini d’imbarco dalla Libia verso l’occidente, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli e meno di 100 dal confine con la Tunisia. I migranti vengono rinchiusi in questo casermone, costretti a subire per mesi la crudeltà dei trafficanti di essere umani.

Con la loro testimonianza i superstiti hanno permesso alla polizia, coordinata dalla Dda di Palermo, di arrestare tre africani con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla tratta ed al traffico di esseri umani, sequestro di persona a scopo di estorsione, violenza sessuale, omicidio. Reati aggravati dalla transnazionalità, dalla disponibilità di armi, dall’agire con crudeltà e sevizie per futili motivi. Il provvedimento è stato eseguito nei confronti dei nigeriani Godwin Nnodum, 42 anni, Bright Oghiator, 28 anni, e Goodness Uzor, 24 anni. Tra i testimoni c’è una donna, che ha riconosciuto nel centro di accoglienza di Lampedusa l’assassino di suo fratello. «È stato lui a ucciderlo e poi ha usato violenze anche su di me», il racconto agli atti dell’inchiesta aperta dalla Procura. «Gli africani, armati di fucile e vestiti in abiti civili, erano spregiudicati – racconta un altro testimone alla polizia – picchiavano brutalmente e senza alcun motivo i migranti. Personalmente sono rimasto vittima, in più occasioni, delle loro inaudite crudeltà. Una volta mi hanno legato le gambe e poi mi hanno picchiato ripetutamente con un bastone nella pianta dei piedi, procurandomi delle profonde lesioni e una frattura, tanto da impedirmi di camminare per tre mesi». «Eravamo in balia dei barbari» che «ci picchiavano selvaggiamente mentre eravamo in attesa di partire», riferisce un altro testimone. Che parla di migranti «ceduti e venduti» da una banda di trafficanti.

Agli investigatori la donna ha detto che il fratello è morto il primo novembre del 2016 «dopo tre giorni di lunga agonia» per «le tremende ferite riportate su tutto il corpo» per i violenti colpi che gli ha assestato uno dei tre nigeriani mentre un libico lo teneva fermo a terra. «Solo dopo tre giorni di suppliche» la sorella ottiene il permesso «di poterlo seppellire». Un altro sopravvissuto alla casa degli orrori racconta di quando un nigeriano, su ordine di un libico, «mi ha versato della benzina addosso e appiccato il fuoco». È stato un altro libico a soccorrerlo, ma «ancora adesso – fa notare – ho tante ferite visibili». E mette a verbale che «altri ragazzi africani hanno picchiato fino alla morte almeno cinque migranti». Uno «è morto subito perché gli hanno sparato», gli altri, presi a colpi di calci di fucile, sono deceduti due-tre giorni dopo. Tutti i migranti, minacciati con i kalashnikov, erano costretti a stare all’interno della casa dell’inferno.

Bande armate senza scrupoli, come quella che ha ucciso con un colpo d’arma da fuoco un ragazzo di 21 anni della Sierra Leone, assassinato per un cappellino da baseball. Per concorso nel delitto, polizia e guardia di finanza, coordinati dalla Procura di Catania, hanno fermato Abouzid Nouredine Alhadi, libico di 21 anni, arrivato il 6 maggio scorso con la nave Phoenix della ong Moas, assieme a 394 migranti; assieme ad un altro libico, Hurun Gafar, è accusato anche di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Al fermo del libico, accusato di concorso morale nell’omicidio, gli inquirenti sono arrivati grazie a un filmato fornito dall’Ong Moas, che lo ha realizzato con un suo aereo, ha detto il procuratore Carmelo Zuccaro, sottolineando che «è la prima volta di una collaborazione con la magistratura etnea».

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