Macron vince: «Con me in marcia la Francia dei Lumi»
«La Francia ha vinto», grida Emmanuel Macron appena salito sul palco del Louvre, dopo avere camminato per alcuni minuti da solo davanti alla folla accompagnato dalle note dell’Inno alla gioia di Beethoven, l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Una scenografia da grandeur e un’espressione solenne sul viso del presidente più giovane al mondo (39 anni) che ha appena dimostrato come ci si può sentire patrioti ed europei, rivendicarlo, farne coraggiosamente il cuore della propria proposta politica e — in tempi di Brexit — vincere le elezioni.
Al suo arrivo la gente sventola il tricolore francese e bandiere europee, che negli ultimi anni si erano viste più che altro nelle piazze di Tbilisi o Kiev, in Paesi come la Georgia o l’Ucraina che nell’Unione non ci sono ma ci vorrebbero tanto entrare, luoghi che hanno tenuto in caldo l’ideale europeo mentre nelle capitali dell’Ovest le piazze si riempivano di euro-scettici e di politici che provavano a salvarsi la faccia dando la colpa a Bruxelles.
Macron ha scelto l’esplanade del Louvre per la festa della vittoria perché non ha paura di essere maestoso quando serve, e perché il Louvre è perfetto per il presidente che vuole essere. La piazza della sinistra è la Bastiglia, quella della destra la Concorde. Macron che vuole «prendere il meglio della sinistra, della destra e anche del centro» ha scelto un luogo finora disertato dalla politica: il cuore della cultura internazionale, il luogo che racchiude i più grandi capolavori dell’arte mondiale — non solo francese — di tutti i secoli, dagli egizi alla Gioconda , e ha fatto piazzare il palco davanti alla piramide di vetro ultra-moderna. La cultura, il cosmopolitismo e lo sguardo rivolto al futuro sbattuto in faccia all’avversaria che sogna una Francia chiusa, protetta, ripiegata verso un passato di gloria autarchica che forse non è neanche mai esistito.
Poco prima che il nuovo presidente arrivasse, la festa era cominciata con il concerto di Cris Cab, un cantante americano di origini cubane che si è messo a cantare «Englishman in New York» (una cover di Sting) davanti alla piramide disegnata dal cinese Ieoh Ming Pei, un altro schiaffo ai nazionalisti del Fn che qui a Parigi al primo turno sono stati solo il 5% degli elettori.
Emmanuel Macron ha vinto con il 65,8% dei voti, contro il 34,2% di Marine Le Pen. L’astensione non è mai stata così alta dal 1969, oltre il 25%. Ma l’impresa resta sorprendente, perché Macron ha fondato il movimento «En Marche!» solo un anno fa, quando si è candidato alla presidenza della Repubblica nessuno gli dava la minima chance di vittoria. Tutti i colpi di scena della campagna elettorale sono andati a suo vantaggio, ma anche la fortuna è una qualità indispensabile per chi vuole guidare un grande Paese.
«Quello che abbiamo fatto in questi mesi non ha precedenti né equivalenti — ha detto —. Questa sera, davanti al Louvre, voi rappresentate il fervore, l’entusiasmo, l’energia del popolo di Francia. Avete scelto l’audacia, e con questa audacia noi continueremo».
L’audacia di Macron è quella di avere giudicato destra e sinistra dei morti che camminano. Lo spiega nel suo libro «Rivoluzione» (La Nave di Teseo) appena uscito in Italia: «Alcuni pensano che il nostro Paese sia in declino, che il peggio debba ancora arrivare, che la nostra civiltà sia in via di estinzione». Evoca qui tutta la retorica della destra frontista ma non solo. Poi prosegue: «Altri pensano che la Francia possa continuare più o meno così, scendendo sì la china, ma una china non troppo ripida. Che il gioco dell’alternanza politica basterà a darci un po’ di respiro». E qui evoca la presidenza socialista di François Hollande, oculato gestore del disastro. «Io sono convinto che abbiano torto, che il fallimento dipenda semplicemente dai loro modelli, dalle loro ricette. Mentre il Paese, nel suo complesso, non è affatto in fallimento. E lo sa. Confusamente, ma lo sa, lo sente. Da qui l’attuale divorzio tra il popolo e i suoi governanti».
Macron ha preso il loro posto di quei governanti contando sull’ottimismo e la voglia di sognare di tanti che ancora pensano che la Francia sia uno dei luoghi migliori dove vivere al mondo. Sul palco ha evocato «l’energia e la benevolenza» dei suoi militanti, contrapposta alla collera dei comizi del Front National. E ancora una volta si è rivolto agli elettori di Marine Le Pen. Ha fermato i buu quasi automatici della folla come ha sempre fatto in questi mesi — «Non fischiatela!» — e poi ha promesso: «In questo Paese esiste anche la rabbia, per ragioni che comprendo. Farò di tutto nei prossimi cinque anni perché non ci siano più ragioni di votare per gli estremi» (strizzata d’occhio anche agli elettori di Jean-Luc Mélenchon, che in tanti hanno preferito non andare a votare).
Emmanuel Macron è un presidente atipico, un uomo che in tempi di Trump alla Casa Bianca non si vergogna né dei suoi diplomi né degli esperti neanche quarantenni di cui si è circondato, una generazione Erasmus al potere non più in Georgia o in Ucraina ma nella seconda economia della zona euro. Un uomo che scrive un libro per parlare del suo programma politico ma anche dei pomeriggi passati da bambino con la nonna insegnante a bere cioccolata calda ascoltando Chopin, alla faccia dei politici impauriti dal giudizio del «popolo» contro le «élite». Alla fine del discorso Macron si fa raggiungere sul palco dalla moglie Brigitte, dai suoi figli e nipoti «che sono miei, perché li amo». La Francia e l’Europa hanno un nuovo presidente sensibile, colto, e molto determinato.
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IL QUADRO ALLA VIGILIA DEL BALLOTTAGGIO
(Infografica di Stampaprint, www.stampaprint.net/it/)
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