Gabriel Angel, la guerriglia come scuola di scrittura
Gabriel Angel è nato nel 1958. E’ stato per trent’anni un guerrigliero delle FARC-EP. A quarant’anni ha deciso che oltre a scrivere testi politici doveva iniziare a scrivere letteratura. La sua opera ha come protagonisti guerriglieri e contadini ma anche militari e paramilitari e riflette storie che trascorrono nella Colombia più rurale, dove la guerra civile ha raggiunto una intensità speciale. La sua letteratura ci avvicina ad un altro modo di guardare e comprendere questa fase della violenza alla quale oggi la società colombiana sta cercando di porre fine.
Come nasce la tua vocazione letteraria?
E’difficile dirlo con precisione. Credo come conseguenza del mio amore per la letteratura fin da giovane. I miei genitori erano di origine contadina, umile, non ho ricevuto da loro un amore per le lettere. Anche se ricordo, e ora mi domando perché, mia madre leggeva molto, faceva le ore piccole leggendo nel suo letto. Forse questo mi ha segnato. Ma sono stati amici della famiglia a incamminarmi verso la lettura di romanzi, e poi la scuola superiore. Ad un certo punto, direi dopo i vent’anni, ho pensato che dovevo scrivere. Era bello leggere molto, però da tutte queste letture uno doveva anche tirare fuori qualcosa di suo, in un certo modo. Per molti anni ho avuto questa inquietudine, fino a che sui quarant’anni ho cominciato a scrivere con una certa serietà. Già ero nella guerriglia da una dozzina d’anni, avevo già molte cose da raccontare.
Come e perché sei entrato nelle FARC-EP?
Sono stato militante fondatore del movimento politico Union Patriotica, nato dopo i colloqui di pace tra le FARC e il governo di Belisario Betancur nel 1985. Ricordo l’entusiasmo, l’idealismo con il quale ci dedicammo a questo compito, eravamo un gruppo di giovani, già professionisti (io ero avvocato e avevo 26 anni). Coltivavo l’illusione che per la prima volta la sinistra avrebbe potuto arrivare alla Presidenza, durante le prime elezioni alle quali partecipò la nostra forza, nel 1986. Non ce la facemmo, il partito liberale ottenne dieci volte più voti di noi. Nonostante ciò il voto per la sinistra raggiunse i livelli più alti della sua storia. Subito dopo però sopraggiunse la valanga di omicidi contro la dirigenza e la militanza dell’Union Patriotica. Ci chiusero in un angolo, non c’era altra strada da scegliere.
Scrivevi già prima del tuo impegno militante? Che differenza c’è nella tua letteratura, prima e dopo la decisione di entrare nella guerriglia?
Avevo scritto qualche poesia e articoli che pubblicavo sul giornale locale che usciva nella città dove vivevo. Nelle FARC ho cominciato scrivendo articoli per i nostri bollettini e riviste. Mi affidarono la redazione di comunicati, documenti e dichiarazioni politiche. Tutto molto razionale e realista. Il passo verso la letteratura propriamente detta l’ho dato con la creazione di racconti sulla vita guerrigliera che a loro volta erano un omaggio ai nostri morti. Ho sempre creduto che i primi documenti erano un compito dell’organizzazione, mentre i secondi scritti, quelli di funzione, erano l’espressione personale delle nostre esperienze.
Nella tua scrittura l’impegno politico, sociale ed umano è evidente e molto chiaro. Credi che questo possa condizionare la qualità letteraria o al contrario le dà in qualche modo un valoro aggiunto?
Fin da quando ho preso la decisione di scrivere fiction, i primi racconti e l’embrione di romanzi, mi sono sempre proposto di evitare ad ogni costo che sembrassero volantini, pamphlet, documenti con chiaro contenuto propagandistico. Volevo fare letteratura pura ma per narrare la nostra vicenda storica e umana. Penso di esserci riuscito. Si è sempre detto che la buona letteratura e la politica non sono esattamente alleati, che quando una causa politica si converte in motivo letterario chi perde è la letteratura. Ho deciso di accettare questa sfida, con la chiara consapevolezza che per via dei miei contenuti avrei perso pubblico. Penso che si tratti in definitiva di essere il più onesto possibile. Il resto, lo dirà il tempo.
Parlaci un po’ della raccolta di racconti appena pubblicata e di A Quemarropa (A bruciapelo) e Los Mensajeros del Diablo (I messaggeri del Diavolo), i due romanzi.
I racconti della Luna del forense hanno come contesto l’esperienza guerrigliera nel Magdalena Medio, una delle regioni più colpite dalla violenza in Colombia. In essi si può respirare la nostalgia per il mio tempo nella Sierra Nevada di Santa Maria, dove ho trascorso i primi cinque anni di vita guerrigliera. Per questo ho pubblicato anche poco dopo Los Mensajeros del Diablo, la ricreazione di un fatto reale che si verificò nella Sierra.
A Quemarropa invece si inserisce nella celebrazione del venticinquesimo anniversario delle FARC, nella Sierra, anche se l’ho scritto molti anni dopo, quando mi trovavo nel Blocco Orientale, agli inizi del cosiddetto Plan Patriota nel 2003. Avevo già una visione già ampia della nostra lotta e per questo il romanzo ha un certo respiro nazionale, la dichiarazione di guerra integrale del Presidente Gaviria. Uno mescola i fatti, li fonde e ci aggiunge la finzione, però fondamentalmente la storia nasce da persone e situazioni reali.
Addentrandoci nella tua opera, come nasce la narrazione. Inizi dai personaggi, dalle storie concrete?
Direi che in un momento dato nasce in me l’idea di raccontare un certo episodio interessante della vita guerrigliera, una esperienza che raccoglie in sé diverse sfaccettature della natura umana e politica della nostra lotta. Qualcosa che è avvenuto realmente. Allora lascio che l’idea maturi qualche mese, o perfino anni, fino a quando all’improvviso si accende una luce nella mia testa, devi fare così, così lo devi raccontare, integrando questo a quello, contestualizzandolo in questo modo… Allora comincio a scrivere la storia e non mi fermo fino a che non la considero terminata. Può essere un lavoro di mesi, anni. Mano a mano che la scrivo la storia si arricchisce, ci sono personaggi che cominciano ad esigere una maggior presenza. Però questo nasce mentre si lavora, non corrisponde esattamente ad un piano predeterminato.
Diciamo che non costruisco personaggi né dilemmi, narro la storia di persone che ho conosciuto e i dilemmi nei quali sono stati coinvolti. Sono persone e fatti che ho conosciuto da vicino. E’ sempre necessario introdurre finzione, per riempire alcuni vuoti. A meno che non si faccia cronaca, cosa che mi seduce enormemente, quasi un racconto giornalistico esatto di quello che si è conosciuto direttamente o che ci è stato raccontato. Sfortunatamente in questa lotta si entra in contatto con grandi narratori di storie, solo che purtroppo non hanno la sufficiente capacità di sedersi e scrivere. Se lo facessero, non avremmo nulla da fare. In un certo senso uno è un parassita, si alimenta i ciò che hanno vissuto e sofferto altri. E riceve applausi per questo. Sarà giusto?
Quali influenze letterarie riconosci?
Sicuramente ce ne sono molte. Però ho cercato consapevolmente di fare quello che sento, come lo sento, senza lasciarmi attrarre dal modo in cui altri fanno le cose. Direi che dopo aver trascorso venticinque anni leggendo romanzi e racconti degli autori più diversi, qualcosa di tutto ciò si occupa di costituire uno stile e una maniera di narrare le cose. Ho sempre ritenuto che i grandi autori lo fanno sempre molto meglio, così non vale la pena imitarli. Non si potranno uguagliare mai. Credo che con molta umiltà e essendo ricettivi di critiche e commenti si possa riuscire a creare qualcosa di proprio, che altri non hanno fatto. Allora uno comincia a riconoscersi come creatore.
E altri elementi non letterari strettamente che hanno importanza nella tua scrittura? La musica, la natura…
Tutto è letterario, assolutamente tutto. Quello che si scrive è un riflesso del mondo reale che è piano di eventi di tutti i tipi. A mio avviso quello che non si può essere, è essere estremamente ambiziosi e introdurre troppe cose in una opera. Mi sono sempre sforzato tanto per fare in modo che quello che scrivo non sia noioso, non provochi sonno nel lettore, pigrizia di andare avanti. Così cerco di tradurre in racconto soltanto quello che ritengo necessario alla storia, ci sono molte cose che rimangono per aria, che potrebbero essere state usate, però è necessario evitare a tutti i costi di saturare il lettore. Ci sono molti, troppi libri e eventi nel mondo, non si tratta di introdurli tutti nel proprio. L’importante è dire qualcosa di nuovo, o almeno cercare di dirlo in maniera diversa e piacevole.
Come definiresti il panorama letterario colombiano? Che autori ti sembrano interessanti?
Devo confessare una cosa che potrebbe suonare come una eresia o ignoranza. Sono stato quasi trent’anni nella selva, nel mezzo di una lotta armata. Anche se sempre si porta un libro nello zaino e si sta leggendo qualcosa, non sempre si legge in modo sistematico su un tema o argomento. Si passa da un argomento all’altro, diciamo da un libro sul capitalismo neoliberalista a uno su Simon Bolivar o da un libro di Garcia Marquez o Vargas Llosa a un saggio sull’intelligenza del combattimento o la discriminazione della donna. Non sono riuscito a seguire seriamente la letteratura contemporanea del mio paese. Per questo preferisco non parlare di argomenti che non conosco bene.
La tua esperienze personale e narrativa dimostra che la realtà è parecchio più immaginativa che la finzione?
Puoi disegnare e tessere la trama più interessante del mondo, ma questa sarà sempre il prodotto della tua mente, di quello che tu vuoi fare con la tua storia. La realtà è diversa, incredibilmente sorprendente, la maggior parte delle volte inaspettata. Ricordo una volta, nel mezzo di una operazione militare di grandi dimensioni contro un fronte del Magdalena Medio nel quale mi trovavo, il comandante del Fronte mi fece un commento sulla incredibile velocità con cui cambiano le cose in guerra. Sei tranquillo e sicuro quando da un momento all’altro si verifica un assalto o uno scontro con il nemico e allora la tua vita si altera completamente. Il tuo gran amico o la tua compagna sono morti, ci troviamo a trasportare feriti che si lamentano e il nemico ti segue per distruggerti. Cinque minuti prima, nessuno immaginava che tutto ciò stava per accadere. Così come non riesci adesso ad immaginare come uscirai vivo da ciò che sta succedendo. E una volta passato questo momento, ti vedi lì a raccontarlo con altri compagni, magari ridendo di questo o quell’episodio. Definitivamente, sì, la realtà è straordinariamente cangiante e piena di novità.
Immagino che il contenuto “politicamente incorretto” della tua letteratura la rende difficile da pubblicare.
Effettivamente è così. Nessuno vuole esporre la sua casa editrice. Per quanto clandestinamente si faccia, pubblicare e distribuire un libro proibito implica molte persone e non di tutte ci si può fidare, politicamente parlando. Il rischio esiste, nessuno vuole finire in galera o vedere il suo business sparire per una bomba a mezzanotte. Forse non c’è nulla più innocente della letteratura, ma se il regime decide di perseguirla, la questione si fa delicata. La Colombia è curiosa: capi paramilitari come Carlos Castaño e altri criminali pubblicano le loro memorie attraverso terzi, in maniera legale, e nessuno nel potere pensa di detenere o perseguire autori o editori per la diffusione di ideologie perverse. Però il trattamento non è uguale quando si parla di insorgenza rivoluzionaria. Con questa solitamente sono implacabili.
Nella tua letteratura, oltre alla guerriglia, c’è una ricreazione molto viva della realtà contadina e anche del “nemico”, paramilitari e militari. Come ci si addentra in questo immaginario?
I guerriglieri e i campesinos sono la fonte viva delle mie narrazioni, è su di loro che scrivo. Pero questi guerriglieri e contadini hanno un nemico addosso, tutto il tempo, che sempre li attacca. Questo permette di conoscerli, nel loro permanente agire, permette conoscere i suoi valori, i suoi criteri, motivazioni. I soldati nemici parlano con i contadini, raccontano le loro ire, risentimenti, amarezze. Per questo è possibile sapere come pensano.
I tuoi compagni e compagne leggono le tue opere? Le criticano, fanno suggerimenti, commenti?
Non c’è nulla che mi dà maggior gioia che incontrarmi con guerriglieri di luoghi molto lontani, come mi è successo a settembre durante la X Conferenza Guerrigliera nella savana del Yari, e sentirmi dire che hanno letto i miei romanzi, i racconti, le cronache e articoli. Ci sono quelli che se li sono scaricati da internet, che li hanno stampati nei campi e fatto libretti, che li leggono nelle ore culturali o altri spazi. Ai guerriglieri emoziona sapere che qualcuno racconta le loro vite, soprattutto quando lo fa da una prospettiva guerrigliera, cosa che è davvero scarsa. Tutti quelli che scrivono sulla guerriglia, anche con le miglior intenzioni, lo fanno da fuori, senza la sufficiente conoscenza della realtà di una lotta di tanti anni con le sue caratteristiche. Il guerrigliero trova sempre qualcosa che non gli piace, che non è ben riferito, che gli sembra incorretto. Quando chi scrive è un interno, chi legge pensa di guardarsi allo specchio. Per questo sono riconoscenti e applaudono questi sforzi. Pochi o nessuno mi critica, in realtà mi stimolano a continuare a scrivere, e a scrivere di più.
Nella guerriglia uno chiede vettovaglie, generi di prima necessità… Tu chiedevi anche libri?
La guerra è dura e difficile. C’è una disposizione delle FARC che ordina a ogni guerrigliero di portare un libro nel suo zaino perché così ogni unità ha una piccola biblioteca mobile con sé. Ci sono segretari politici e di educazione che si fanno carico di controllare che questa disposizione venga rispettata e di controllare le letture personali. Ma a volte i tempi si fanno duri e pesanti, amari, nel mezzo di un combattimento e succede che con tanto peso da trasportare in spalla i libri si trasformano in un peso in più, ed è preferibile lasciarli in qualche posto per fare spazio a esplosivo, o altre cose. Per quanto possa sembrare irrazionale, arriva il momento in cui non si può criticare questo comportamento. Ci sono stati tempi in cui uno andava da unità a unità mendicando un libro e non se ne trovava nemmeno uno. Inoltre un libro si legge in pochi giorni e quindi diventa un peso. Se nessuno lo vuole trasportare, finisce con l’essere abbandonato. Tutto questo si vive in una guerra. Ci sono momenti in cui parlare di libri risulta impertinente. Da tutto ciò si traggono lezioni. Allora è più opportuno osservare con l’obiettivo di scrivere dopo. Credo che è anche così che uno si forgia come scrittore. Nella disperazione di non avere nulla da leggere.
I gruppi mediatici sottovalutano la letteratura impegnata di sinistra accusandola di essere segnata da una certa intenzionalità…
Direi che il disprezzo più che la sottovalutazione, non deriva tanto dal fatto di essere letteratura impegnata quanto piuttosto dal fatto di essere impegnata per una causa che è apertamente contraria agli interessi di classe della gente al potere. I grandi media di comunicazione, in generale grandi corporazioni monopoliste, sono oggi il principale diffusore della ideologia e cultura dominanti. Quando i media sentenziano che questo è bene e quello è male, quando appoggiano o condannano un’opera, lo fanno motivati dalla difesa chiusa di un sistema che favorisce in modo incredibile i loro padroni. Essere rivoluzionario non è qualcosa che merita applausi. E’ qualcosa da ridicolizzare e detestare. Vogliono che la gente pensi in questo modo, per questo esistono. Fanno parte della realtà che dobbiamo affrontare. Ma un giorno questo cambierà.
C’è chi dice che la letteratura e la cultura forse non cambieranno il mondo ma che possono contribuire a fare in modo che ci sia più consapevolezza. Come pensi potranno contribuire alla costruzione della pace e di una nuova società colombiana.
In realtà penso che se la letteratura aiuta a rendere migliore il mondo e a creare coscienza, allora non c’è dubbio che lo sta anche trasformando. Un’opera letteraria può contribuire a far aprire gli occhi a molta gente, a motivarla a pensare. E qualcuno pensando può finire con l’attuare sulla realtà e trasformarla. O almeno indurre altri a farlo. Credo che lo stesso valga per altre espressioni culturali. Non c’è qualcosa che cambi radicalmente il mondo, non si è mai visto. Vogliamo vedere cambi definitivi in poco tiempo, in anni, in decadi se siamo molto pazienti. Ma alla lunga, tutto è un processo, un cammino lungo e pieno di ostacoli. La Bibbia o il Manifesto Comunista hanno cambiato il mondo? Perfino la scoperta o invasione dell’America, come la si voglia chiamare, ha tardato secoli prima che si sentissero le sue conseguenze. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia credeva di trasformare il mondo totalmente, e cent’anni dopo vediamo che non ha cambiato tanto come sperava di cambiare. Tutto è come una goccia d’acqua su una roccia immensa, un giorno finirà con il farla a pezzi, pero non sappiamo quanti milioni di anni saranno necessari perché questo accada. E poi ci sono i punti di vista. Piccoli cambi portano a altri maggiori. E’ importante lasciare un’impronta nel mondo anche se in cinquemila anni nessuno sarà in grado di dire esattamente a chi apparteneva il piede che ha camminato su questa terra prima che si trasformasse in roccia con i secoli. Questa è la lunga esperienza dell’umanità. Un romanzo o un racconto non conseguirà la pace in Colombia però saranno un mattone in più nella sua costruzione.
Ci puoi dire su cosa stai lavorando al momento? E con la costruzione della pace, che temi e personaggi ti piacerebbe esplorare in futuro?
Ho un progetto di romanzo che è nella sua fase finale. Sto lentamente maturando l’ultimo capitolo. La vittoria del No al plebiscito [il 2 ottobre 2016. Ndr] mi ha costretto ad aspettare un poco più a lungo. Per il resto scrivo per le FARC, per la causa della pace, articoli, cronache e molti altri testi in cui nemmeno appare il mio nome! Quanto a quello che mi piacerebbe esplorare, diciamo così, in tempo di pace, credo che ci siano moltissime cose da raccontare sulla nostra lotta. Sarà un’opportunità eccezionale, la pace.
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