Congo. L’inferno del coltan

by Andrea Nicastro, Corriere della Sera | 17 Aprile 2017 9:00

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Il coltan è un minerale di superficie e per estrarlo non bisogna fare costosi tunnel di chilometri. È raro, si trova in Congo e in pochi altri Paesi. E soprattutto è indispensabile per i nostri smartphone e per l’industria aerospaziale. Facile, prezioso, utile: tre vantaggi che ne fanno il bancomat della giungla, disponibile per chi abbia un esercito privato, sia guerrigliero o militare corrotto. La manodopera della disperazione è semplice da «creare». Basta razziare nelle province vicine, uccidere, violentare. La gente scapperà e verrà a scavare proprio per il «Signore della guerra» che controlla il coltan. Senza che lui investa un centesimo per allestire la miniera, la gente si organizzerà in clan di 30-40 persone. Gli uomini estrarranno le pietre con le vanghe, le donne e i bambini le laveranno a mano nell’acqua e le trasporteranno al mediatore più vicino. A volte cammineranno anche due giorni nella foresta con trenta chili sulle spalle. I minerali verranno imbarcati per la Cina o la Malesia dove i due metalli del coltan (columbine e tantalio) verranno separati per essere venduti all’industria high tech. A ogni passaggio il Signore della guerra prende una tangente e si arricchisce sulla miseria altrui. Può essere un ribelle, un colonnello dell’esercito o un poliziotto.

Il Congo è pieno di schiavi volontari al servizio di uomini forti. Milioni, senza neppure la dignità di una statistica attendibile: bambini analfabeti, orfani, condannati a tramandare da una generazione all’altra la maledizione delle miniere. Rapporti Onu parlano di 11 milioni di morti legati al controllo di questo business. Di chi è la colpa? Di un Paese troppo ricco di risorse e troppo povero di capitale umano. Dell’era coloniale. Del post colonialismo. Del neoliberismo. Della corruzione. Del fallimento dello Stato. Dei nostri smartphone e missili spaziali.

Quasi l’80 per cento del minerale per i telefonini proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, l’intero Paese, invece di arricchirsi, ne è sconvolto e per di più, boicottare l’uso del metallo sarebbe come condannare alla fame milioni di persone.

Suor Catherine delle sorelle del Buon Pastore, in missione a Kowesi, nell’ex provincia congolese del Katanga si sforza di spiegare la corsa al coltan. «La gente non scava nelle miniere artigianali per diventare ricca. Lì si abbrutiscono, si prostituiscono, si ubriacano, si ammalano e muoiono. Chi comincia sa già quale sarà il suo destino. Eppure arrivano di continuo. C’entra il fatto che sono stati scacciati dalle loro terre, ma anche altro, come spiegare a un europeo?». Nella cornetta si sente un coccodé e Suor Catherine si illumina. «Ecco forse così potrete capire: lo fanno perché non hanno le galline. Questa gente ha fame, in un paradiso ricco d’acqua e piante meravigliose come il Congo, non sono in grado di coltivare o allevare un pollo, sanno solo scavare».

«È la maledizione della ricchezza — sostiene il funzionario Onu Maurizio Giuliano, grande conoscitore dell’Africa —. Da 20 anni a questa parte sono quasi scomparse per ragioni politiche le grandi compagnie minerarie che offrivano un certo welfare ai loro operai. C’era paternalismo sì, ma la privatizzazione delle concessioni in assenza di un aiuto alternativo ha distrutto la coesione sociale. Signori della guerra controllano decine di migliaia di lavoratori in schiavitù volontaria. Stupri di massa e abusi di ogni genere sono la regola. E chi non scava o spara, muore di fame».

Bambini di 5 anni in miniera, bambine di 11 nei bordelli delle bidonville minerarie, madri abbandonate con 5-10 figli che muoiono di fatica e malattia a trent’anni, orfani, schiavi volontari per un uovo al giorno.

Questi minatori «artigianali», dentro la giungla, guadagnano 3-4 dollari al giorno. Donne e trasportatori 2. I bambini anche meno. «Però così riescono almeno a mangiare — insiste ancora suor Catherine —. Il cibo in Congo è carissimo perché importato. Uova dallo Zambia, fagioli dalla Namibia, cavoli e mele dal Sud Africa». Chi compra il minerale dai minatori è spesso lo stesso che gli vende il cibo riprendendosi gli spiccioli che gli ha appena dato. «Basterebbero delle galline a dare un’alternativa».

Per aiutare i bambini minatori del Congo sarebbe, forse, utile un altro Leonardo DiCaprio. Il suo film Blood diamond (Diamanti di sangue) aiutò a incrinare il legame tra pietre preziose e guerre perché da sempre si cercano gemme per comprare armi, ma è con le armi che ci si impossessa delle gemme. Lo stesso sta accadendo con i metalli per l’High-Tech. Anche grazie a DiCaprio le regole internazionali sono cambiate in meglio. Il commercio dei diamanti non si è convertito in un esercizio di virtù, ma almeno chi vuole comprare pietre pulite oggi può farlo. Vale lo stesso per gli smartphone che abbiamo in tasca?

«Da due anni a questa parte — spiega Cristina Duranti, della Fondazione Internazionale Buon Pastore — la catena di approvvigionamento dei metalli rari ha ricevuto maggiore attenzione. È entrata in vigore la riforma di Wall Street, la Dodd-Frank Act, che impone di controllare che le materie prime non alimentino i conflitti del Congo. Ci sono stati dei passi avanti, ma resta grande il problema del contrabbando e delle milizie».

Karen Hayes è la direttrice del programma «dalla miniere al mercato» della Ong Pact finanziata dalle industrie che usano il coltan e dal governo olandese. «Dal 2010 — racconta — abbiamo catalogato 800 miniere, mappato le zone di conflitto, distribuito computer e insegnato agli Stati a sorvegliare la catena dell’export. Oggi possiamo dire che le armi sono scomparse dalle miniere, anche se restano i bambini minatori e la povertà».

Pochi però, vedono come Pact, il bicchiere mezzo pieno. Amnesty International sostiene che la Dodd-Frank Act ha solo scalfito il problema e la maggioranza delle società non ha neppure tentato di ottemperare alla Legge soprattutto per la parte del business che avviene nella giungla.

Una compagnia privata, la Fairphone, si vanta di produrre esclusivamente telefonini «senza guerra». «Controlliamo direttamente tutte le fasi dell’approvvigionamento — spiega Laura Gerritsen, responsabile del programma —. Così evitiamo il boicottaggio e non danneggiamo l’economia del Paese basato sulle miniere». Dalla parte opposta dell’etica del lavoro, società cinesi, kazake o comunque non quotate a Wall Street, ignorano qualsiasi procedura e comprano coltan da chiunque senza voler sapere come l’ha estratto.

Il problema è enorme come il Congo, 80 milioni di abitanti, un governo conteso e un livello di scolarità che invece di crescere diminuisce.

«Non è più solo un problema di sfruttamento internazionale — dice il professor Luca Jourdan dell’Università di Bologna —. È peggio oggi il fallimento dello Stato. Le autorità hanno assunto una forma violenta e predatoria. Le istituzioni si mostrano efficienti quando distribuiscono concessioni minerarie ai famigli del potere e le proteggono con la forza. Quando invece si tratta di difendere i diritti basici delle persone, dai bambini, alle donne, ai lavoratori, lo Stato smette di esistere. Il risultato sono intere generazioni perdute, un popolo ridotto in schiavitù».

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