La guerra totale della Turchia: raid su Siria e Iraq
Una strage tira l’altra e il Kurdistan è in fiamme. In poche ore tra Siria e Iraq aerei statunitensi e turchi hanno portato morte e distruzione, svelando le infinite contraddizioni delle variegate reti di alleanze in Medio Oriente.
A morire sotto i raid Usa sono stati ieri 11 civili (7 bambini). Le bombe hanno centrato l’auto con cui fuggivano da Taqba, strategica località alle porte di Raqqa, terreno di scontro tra Isis e Sdf (Forze Democratiche Siriane, federazione di kurdi, assiri, arabi, turkmeni e circassi sostenuta da Washington).
Un altro massacro di civili, che segue alla più recente strage tra i combattenti Sdf – 18 uccisi per errore dagli Stati uniti a metà aprile – e alle 7.697 vittime civili tra Siria e Iraq da agosto 2014 (dati Airwars).
Anche ieri, come spesso accaduto, si trattava di persone in fuga. E sono tante, ancora oggi, ammassate al confine, con le frontiere settentrionali con la Turchia serrate: secondo l’Onu nelle ultime settimane si contano almeno 39mila nuovi sfollati interni nella provincia di Raqqa, l’80% dei quali non ha trovato alcun rifugio.
Nelle stesse ore la Turchia compiva il più feroce attacco aereo tra Siria e Iraq degli ultimi anni: con 26 raid l’aviazione di Ankara ha colpito Rojava, nord della Siria, e Sinjar, nord-ovest dell’Iraq. Si parla di 24 morti. Tra le vittime anche cinque peshmerga di stanza a Sinjar, area yazida contesa tra Pkk e Kdp (il partito kurdo iracheno del presidente Barzani). Ovvero forze che la Turchia sostiene apertamente.
In Siria nel mirino sono finite le Ypg kurde, spina dorsale delle Sdf e alleati degli Usa. Tanto che ieri funzionari statunitensi hanno visitato le zone colpite a Rojava per portare solidarietà e valutare i danni.
Un cortocircuito esplosivo con alleati di lungo corso che si bombardano a vicenda, per poi tornare serenamente a sedere allo stesso tavolo. Ma l’aggressività della Turchia – che, come ci si attendeva, vive un’escalation figlia dei super poteri che il presidente Erdogan si è attribuito con la riforma costituzionale – non frena di fronte agli interessi dell’amico statunitense. L’obiettivo è chiudere il capitolo kurdo, in casa come alla frontiera.
La violenza su Rojava e Sinjar ne è la prova immediata. In Siria sono state colpite le postazioni Ypg a Derik, a al-Malikiyah e sul monte Qaraqox nella provincia di Hasakah, estremo oriente siriano, ma anche zone residenziali, la radio Denge Rojava e un media center. Tra i morti ci sono combattenti, civili e giornalisti.
In Iraq sono state centrate le basi delle Ybs, affiliate al Pkk, ma anche (per errore) quelle degli alleati peshmerga e gli uffici di Cira Radio.
La risposta kurda è stata immediata: a Diyarbakir i partiti turchi di opposizione Hdp e Dbp hanno fatto appello alla gente perché protesti, mentre migliaia di persone da Qamishlo, Derik e Hasakah raggiungevano Qaraqox per manifestare contro i raid. La leadership militare ha accusato il Kdp di Barzani di aver fornito a Ankara le coordinate dei bersagli nemici.
Una parziale conferma, almeno politica, arriva dal Ministero dei Peshmerga di Erbil che in un comunicato definisce «doloroso e inaccettabile» il raid ma ne dà la colpa al Pkk, chiedendogli di ritirarsi da Sinjar, territorio strategico tra Mosul e il confine siriano.
Il corridoio di intervento turco è definito e ormai collegato: Ankara ha cominciato a ovest, due anni fa, l’operazione contro le montagne irachene di Qandil, dove il Pkk si ritirò durante il processo di pace; ha proseguito l’anno scorso ad est contro Rojava, nord della Siria; ora prende di mira Sinjar, alla frontiera tra i due paesi.
Difficile non vedere nella sequela di bombardamenti e interventi di terra (prima in Iraq, nel novembre 2015, inviando truppe a Bashiqa e poi in Siria con l’operazione Scudo dell’Eufrate ad agosto 2016) il chiaro obiettivo di creare una zona cuscinetto al confine, “ripulita” della presenza kurda o quantomeno dell’attività politica e militare delle formazioni legate al Pkk e alla sua ideologia.
Non si può dire che Erdogan non abbia avvisato: un mese fa aveva finto di chiudere Scudo dell’Eufrate e annunciato il lancio di Scudo del Tigri.
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