by Franco Cardini *, il manifesto | 16 Aprile 2017 8:54
Ecco, per la repubblica turca, è il Grande Giorno. Si decide oggi, in via referendaria, se essa manterrà l’assetto istituzionale di repubblica parlamentare scelto nel 1923 o se si trasformerà invece in repubblica presidenziale secondo gli auspici del reis Recep Tayyip Erdogan. Per grandi linee e in estrema sintesi i cittadini turchi dovranno de approvare o respingere un “pacchetto” di 18 emendamenti alla Carta costituzionale del ’23.
Tra essi, sono di un qualche rilievo quello “garantista” che prevede la possibilità d’impeachment, quello vagamente demagogico e in fondo non necessariamente “autoritario” riguardo la riduzione dei membri dell’Assemblea Nazionale, quello decisamente indice di “discontinuità” secondo il quale saranno abolite le corti militari, presidio da sempre del “laicismo” kemalista. Ma i due emendamenti che qualificano in modo evidente la svolta sono quello che riguarda la durata del mandato presidenziale (due legislature, vale a dire un decennio, dopo le prossime elezioni previste nel ’19) e quello che concerne l’abolizione della carica di primo ministro: il che vuol dire che Erdogan resterà alla guida del popolo turco fino alle elezioni del ’29. Resterà presidente indipendentemente dall’esito delle elezioni del ’19 e del ’24 (e ci resterà come capo del suo partito, dato che un altro emendamento prevede che il presidente non sia tenuto ad abbandonare lo schieramento dal quale proviene: che non debba più essere quindi almeno formalmente super partes). Il suo sarà effettivamente un potere, diciamo così, di “regno e di governo”, secondo il modello americano anziché secondo quello francese o tedesco, che prevedono rispettivamente un primo ministro o un cancelliere che affianchi il capo dello stato esercitando le funzioni di capo del governo.
Riuscirà il reis a ottenere su questo “pacchetto” il consenso dell’elettorato? Se non ce la facesse, è pronta la soluzione di riserva: il voto spetterà ai parlamentari dell’Assemblea Nazionale che dovranno esprimersi fra otto mesi, il 6 gennaio del ’18; e in quel caso sarà sufficiente la maggioranza semplice.
Il punto centrale, comunque, sta nelle condizioni secondo le quali si è giunti al voto. Dopo il fallito (o simulato? O, com’è in ultima analisi più probabile, autentico ma da un certo momento in poi “manovrato”) golpe del 15 luglio scorso il paese non è più uscito dallo “stato d’emergenza” con relative leggi speciali. Il rischio è che, se passa il referendum, tali leggi passino in un modo o nell’altro, secondo questa o quella procedura, da “speciali” a “ordinarie”: che cioè il sistema si trasformi in un regime. E che, se non passa, il paese cada nel caos: dal momento che appare impensabile sia che le opposizioni non chiedano a gran voce che il reis se ne vada, sia, dall’altro lato, che egli continui a governare come se niente fosse stato.
Intanto, questi nove mesi circa di “dittatura” nel senso etimologico del termine – cioè di poteri e di leggi speciali legittimati dallo stato di emergenza – hanno profondamente mutato il volto del paese. I media sono stati costretti a tacere o ad allinearsi; molti militari, magistrati e docenti universitari sono stati rimossi dalle loro funzioni; molti giornalisti, intellettuali e scrittori arrestati o incriminati o minacciati; la repressione colpisce anche funzionari subalterni, impiegati, operai, a rischio di multe, di ammonizioni, di licenziamenti più o meno legali; i programmi Erasmus per studenti stranieri sono stati sospesi e chi era titolare di borse di studio costretto a rientrare nel paese d’origine, il che costituisce da solo un pesante fattore d’isolamento della Turchia; i sistemi informatici sono soggetti ad attento controllo e non mancano casi di persone arrestate solo per aver diffuso messaggi o foto via facebook; a fronte di una sempre più aggressiva e frenetica attività del partito del presidente, le voci dell’opposizione si sono fatte sempre più flebili e l’Hdp, il “partito democratico dei popoli” che rappresenta le minoranze etnico-religiose (curdi, yazidi, alewiti), appare ormai emarginato.
Stanno con Erdogan anche molti nazionalisti di tendenza “laica”, ma che – pur non apprezzando l’evidente simpatia che corre tra le forze vicine al reis e le varie correnti religioso-radicali, approvano il suo rigore nei confronti delle minoranze, soprattutto dei curdi. Insomma, non lasciamoci troppo fuorviare da chi si richiama all’entusiasmo libertario dei tempi del Ghezi Park: atmosfera e contesti sono cambiati.
Il tono civile che predomina, in questo momento prereferendario, è una sorta di disinteresse frutto in parte d’intimidazione, in parte di rassegnazione. Che ruolo avrà, nel mondo mediterraneo e vicino-orientale, una Turchia vicina al radicalismo musulmano e che nonostante ciò resterà nella Nato di cui è parte integrante?
E questo ci richiama agli errori di noialtri europei: che alcuni anni fa, quando Erdogan bussava con insistenza e quasi con umiltà alla porta dell’Ue, gli facevamo continui, insistenti esami di europeicità, di democraticità, di occidentalità. La Turchia non era ancora “matura” per questo e per quest’altro, il suo passato ottomano era d’ingombro alla vocazione europeistica (perché, poi?), si trattava pur sempre di una nazione musulmana estranea alla nostra identità (ma non si era sempre blaterato sulla vocazione “laica” dell’Europa? “Laicità” non è chiusura dinanzi a questa o a quella fede, è rispetto di tutte). Eppure sapevamo tutti che uno dei possibili sbocchi ideologici dell’erdoganismo, insieme alle tentazioni neo-ottomane, era una qualche riedizione del panturchismo: non era certo un caso se nei bazaar d’Istanbul, insieme agli immancabili onnipresenti ritratti di Mustafà Kemal, aveva ripreso a rispuntare qua e là anche qualche ritrattino di Enver Bey, la bestia nera degli armeni, il consigliere militare del kaiser e di Lenin, l’eroe martire del jihad antisovietico nell’Asia centrale del ’24. Ma la prospettiva centroasiatica del reis, fino all’Azerbaijan e ancora oltre, verso le repubbliche turcomongolecentrasiatiche, se l’ingresso della Turchia nell’Ue lo avesse consentito, ci avrebbe fatto arrivare fino a confinare col cuore profondo dell’Asia (certo, Putin e Cina permettendolo).
Ma l’Ue aveva altro da fare e da pensare. Il suo governicchio di ragionieri miopi e pignoli, “comitato d’affari” degli azionisti privati della Banca Centrale Europea, era occupatissimo a taglieggiar greci, spagnoli e italiani e a discettare sulla lunghezza “legale” degli stoccafissi pescabili e commerciabili nonché sulla percentuale di burro di nocciole da legittimamente aggiungere alla pasta di cacao per poter denominare “cioccolato” il prodotto finito.
Un Erdogan presidente di una Turchia membro della Ue si sarebbe forse comportato con maggior prudenza in occasione del golpe dello scorso anno, e magari avrebbe flirtato un po’ meno con le potenze arabe del Golfo e perfino col Daesh. E ora eccolo invece qua, che da una parte pensa a un’alleanza bilaterale turco statunitense che “bypassi” l’Europa, ora perfino a una storicamente inedita per non dir inaudita (nel senso etimologico del termine) intesa turco-russa. E, come diceva in tempi non sospetti il principe Bakunin, se lo czar e il sultano s’abbracciano, a restare strangolata in quell’abbraccio è la libertà.
*ytali.com
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