TTIP. Il mondo è in vendita

by Monica Di Sisto, Alberto Zoratti, 13° Rapporto sui diritti globali | 13 Aprile 2017 7:49

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Ciò che conta per le lobbies economiche e mettere in moto un meccanismo capace di dare loro facile accesso alle stanze dei bottoni, intese non tanto come i luoghi della decisione politica, quanto le strutture tecniche che stanno a monte del processo legislativo, che sono partecipate solo da figure tecniche e da esperti e che informano la componente politica degli obiettivi da raggiungere.

 

Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione[1] e dalla sua redazione[2], promosso dalla CGIL, nel suo volume del 2015, il 13°, contiene come sempre un capitolo dedicato ai temi dell’Ambiente e dei Beni comuni, curato da Monica Di Sisto e Alberto Zoratti . Il Focus del capitolo nel 2015  è dedicato al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP).

Qui sotto un breve estratto del Focus.

Qui[3]  scaricabili l’indice[4] generale del volume, la prefazione[5] di Susanna Camusso e l’introduzione[6] di Sergio Segio.

Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse[7]

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Il NAFTA e il caso della Lone Pine Resources

Un caso particolarmente conosciuto è quello della Lone Pine Resources, un’impresa petrolifera canadese che si è vista revocare la licenza di estrazione di gas di scisto nella zona del Fiume San Lorenzo, in seguito a una moratoria sul fracking votata e approvata dal Quebec. Appellandosi all’articolo 1105 e 1110 del NAFTA (North American Free Trade Agreement), l’accordo di libero scambio che lega dal 1994 i mercati di Canada, Stati Uniti e Messico, l’azienda ha fatto ricorso all’ISDS contenuto nel capitolo “Investimenti” del trattato (sotto l’egida dell’UNCITRAL), chiedendo 120 milioni di dollari di compensazione a cui si dovranno sommare costi legali, interessi e copertura di eventuali tasse da pagare (Italaw, 2015).

L’ISDS è un meccanismo che permette solo alle imprese straniere di denunciare il governo del Paese ospitante, creando peraltro una sorta di discriminazione al contrario nei confronti delle imprese locali e nazionali, che hanno accesso solamente alle corti ordinarie. Nel caso della Lone Pine Resources l’operazione ha fatto leva sulla presenza di una sussidiaria statunitense che ha potuto presentare ricorso davanti all’arbitrato del NAFTA.

Secondo Stuart Trew, responsabile del settore commercio internazionale dell’ONG canadese Council of Canadians, «la moratoria de Quebec sul fracking è legale ed è sostenuta fortemente dall’opinione pubblica. Il profitto aziendale non dovrebbe mai entrare nelle politiche di tutela ambientale e di salute pubblica. […] È scandaloso pensare che potremmo dover pagare Lone Pine per non perforare il fiume San Lorenzo» (Council of Canadians, 2013).

Inoltre, come sottolinea il rapporto del DG Internal Policies, si è osservato che «le clausole di protezione degli investitori contro l’esproprio mostrano di essere rischiose per il diritto di regolamentare degli Stati, specialmente nei Paesi in via di Sviluppo dove i governi non necessariamente hanno fondi sufficienti per compensare gli investitori».

Quanto queste clausole siano rischiose è stato rilevato dalle risoluzioni votate nella primavera del 2015 da diverse Commissioni del Parlamento Europeo, come Ambiente (Envi), Occupazione e Affari Sociali (Empl), Affari Costituzionali (Afco), Affari Legali (Juri) e Petizioni (Peti), che hanno chiesto al Parlamento Europeo di eliminare la clausola ISDS dal trattato. Obiettivo delle votazioni era quello di fornire un parere alla Commissione Commercio Internazionale (Inta) per la sua proposta di risoluzione sul TTIP, programmata per il 28 maggio e successivamente votata l’8 luglio, dopo uno slittamento dovuto a spaccature interne ai partiti di maggioranza relativa proprio sulla questione ISDS. L’atto d’indirizzo, votato con ampia maggioranza, oltre a dare una cornice aggiornata alla Commissione Europea su cosa e come negoziare (sebbene utilizzando spesso un testo talmente ambiguo da risultare inefficace nel porre “linee invalicabili” alla trattativa), ha rimesso in discussione l’arbitrato internazionale, chiedendo che venga riformato in una forma pubblica e trasparente, appellabile e ridimensionata negli scopi (European Parliament, 2015 a). Per molte realtà della società civile si tratta di una proposta timida e inefficace, soprattutto per le norme a cui si ispira (che mettono comunque al centro la tutela degli investimenti e della libera competizione rispetto ad altre priorità) e per il fatto che sarebbe in ogni caso ridondante rispetto alle corti convenzionali e alla Corte europea di giustizia. La Campagna Stop TTIP Italia –  coalizione italiana di oltre 250 organizzazioni e associazioni che si batte contro la conclusione del trattato transatlantico – sottolinea come una riforma così proposta (e comunque per i movimenti inaccettabile) sia facilmente aggirabile utilizzando altri trattati di libero scambio appena conclusi, come quello con il Canada, al punto da renderla comunque inutile (Stop TTIP Italia, 2015).

 

Il Nafta

Il Nafta (North American Free Trade Agreement) è un trattato di libero scambio tra Canada, Stati Uniti e Messico firmato il 17 dicembre 1992 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994. Il Nafta è contenuto in due volumi per un ammontare complessivo di circa 1200 pagine, cui devono essere aggiunte oltre 2000 pagine di annessi e materiale tecnico, più i testi di tre accordi collaterali voluti dall’Amministrazione Clinton per meglio disciplinare la tutela dell’ambiente, il lavoro e le eccessive oscillazioni nelle importazioni (import surges). Il corpo centrale è suddiviso in otto Parti (Disposizioni generali, Commercio dei beni, Barriere tecniche al commercio, Acquisti del settore pubblico, Investimenti, servizi e questioni relative, Proprietà Intellettuale, Disposizioni amministrative e istituzionali, Altre disposizioni) per un totale di 22 capitoli.

Nella sua essenza, il Nafta è una versione nuova, migliorata e ampliata dell’accordo di libero scambio concluso nel 1988 tra Canada e Stati Uniti (Canada-United States Free Trade Agreement, Cusfta); il nuovo accordo è entrato in funzione in un contesto in cui gli scambi commerciali fra Canada e USA erano ormai in larghissima parte condotti in regime di esenzione da imposte doganali.

In gran parte della sua estensione, l’Accordo comporta l’impegno da parte del Messico di implementare il livello di liberalizzazione del commercio e degli investimenti programmato dai suoi due partner industrializzati nel 1988. Tuttavia, il Nafta si spinge oltre nell’indirizzare gli affari rimasti in sospeso col Cusfta, includendo la protezione totale dei diritti di proprietà intellettuale, assicurando ulteriori regole contro le distorsioni degli investimenti, regolando la copertura dei servizi di trasporto.

In sintesi, gli obiettivi primari dell’Accordo sono: eliminazione delle tariffe d’importazione; riduzione dei controlli doganali tra i Paesi membri; promozione delle condizioni per una concorrenza leale; stimolo alle possibilità d’investimento; protezione dei diritti di proprietà intellettuale; creazione di procedimenti efficaci per l’applicazione dell’accordo e per la soluzione delle controversie; sviluppo della cooperazione trilaterale, regionale e multilaterale (Università di Verona, 2006).

 

Gli OGM: una contesa non da poco

C’è una filosofia sostanzialmente diversa tra Unione Europea e Stati Uniti per ciò che riguarda la prevenzione e la tutela ambientale e della salute. Mentre, come già anticipato, l’Europa utilizza il “principio di precauzione” come elemento sostanziale, oltreoceano si privilegia la “gestione del rischio”, basandosi sull’ambiguo concetto di “science-based approach”, cioè approccio “basato sulla scienza”. La questione degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) è un esempio lampante: mentre nell’Unione Europea per piazzare un prodotto transgenico è necessario chiedere una specifica autorizzazione che deve rispondere a richieste specifiche, presentando una stima di impatto ampia, che include l’ambiente, a carico del richiedente, negli Stati Uniti vale il principio dell’equivalenza sostanziale che evita trattamento differenziato per gli OGM definiti dalla Food and Drug Administration, la principale agenzia federale sulla sicurezza alimentare, come “sicuri”. Non esiste quindi alcun processo di monitoraggio sugli effetti di lungo periodo del consumo di alimenti transgenici. Di conseguenza, anche i meccanismi e le procedure si differenziano: mentre in Europa esiste un registro degli OGM autorizzati, negli Stati Uniti esiste semplicemente una lista non più soggetta a nessuna forma di controllo e non facilmente accessibile al pubblico. E mentre in Unione Europea è previsto l’obbligo di etichettatura per alimenti contenenti OGM con una quantità superiore allo 0,9%, lo stesso non esiste in America, dove le etichettature sono volontarie a livello federale, sebbene esistano alcune esperienze di labelling obbligatorio a livello degli Stati. Eppure, anche le etichettature volontarie rischiano di essere considerate come barriere tecniche al commercio.

In una lettera inviata nel settembre 2014 (IATP, 2014) più di 70 realtà della società civile americana hanno denunciato il rischio che il TTIP possa cancellare i tentativi di tracciare alimenti contenenti OGM, come richiesto da un’ampia coalizione di imprese del settore (American Farm Bureau Federation et al., 2013). Una proposta che non colpirebbe solamente la più stringente normativa europea, ma che metterebbe a rischio anche quelle sperimentazioni che vengono applicate negli Stati Uniti. Il Connecticut e il Maine hanno approvato, ad esempio, leggi in materia di etichettatura degli OGM nel 2013, e finora 35 nuove normative riguardanti l’etichettatura di prodotti transgenici sono già state introdotte in 20 Stati. La prima legge che prevede etichette obbligatorie è quella del Vermont, esecutiva dal maggio del 2014.

Quanto questa battaglia sia appena iniziata lo dimostra la recente decisione del Dipartimento per l’Agricoltura americano (USDA) che ha scelto di aprire all’etichettatura volontaria dei prodotti contenenti OGM (Albright, 2015). Certamente un passo avanti rispetto alla trasparenza, ma per molti un meccanismo debole nel garantire i diritti dei cittadini e dei consumatori, proprio perché non obbligatorio. D’altra parte, l’offensiva delle imprese del settore è solo all’inizio (Gram, 2015).

Ed è proprio l’attivismo delle imprese, legato alla possibilità di inserire il meccanismo dell’arbitrato di protezione degli investimenti, a preoccupare di più la società civile transatlantica. «Se nel TTIP fosse inserito l’ISDS», scrivono nella lettera indirizzata ai negoziatori americani, «questa minaccia si amplierebbe molto, considerato che le multinazionali europee avrebbero la possibilità di sfidare le politiche nazionali, locali o statali di etichettatura degli OGM, in rappresentanza delle loro 24 mila sussidiarie che operano negli Stati Uniti» (IATP, 2014).

La Basf tedesca, la più grande azienda chimica al mondo, ad esempio, ha recentemente rilocalizzato il quartier generale della divisione OGM in Nord Carolina. Del resto, non è un caso che una delle principali aziende biotecnologiche americane, in un commento inviato al Trade Representative statunitense proprio sul TTIP, abbia evidenziato l’importanza di includere un meccanismo ISDS nel capitolo delle misure sanitarie e fitosanitarie (BIO, 2013). E questo è uno dei rischi oggettivi del TTIP: nonostante le rassicurazioni dell’Unione Europea sull’inaccettabilità di abbassare gli standard sanitari e fitosanitari, mantenendo quindi il bando sugli OGM per il consumo umano, il rischio rimane e non rassicurano alcune questioni rimaste irrisolte.

La prima è la possibilità di avere un arbitrato, sia privato sia pubblico (in seguito alla possibilità di una riforma del meccanismo), che renderebbe cogenti i principi del libero mercato, imponendo richieste di compensazioni in caso di non aderenza agli standard. La seconda riguarda proprio gli standard di riferimento: già a livello di mandato negoziale si fa riferimento a un approccio basato sulla scienza (European Council, 2013), una formulazione del tutto simile a quella usata dalla Food and Drug Administration americana, che da molti anni ha approvato l’utilizzo di OGM per il consumo umano (FDA, 2015). Ma persino all’interno del documento di posizionamento dell’Unione Europea sull’SPS (le misure sanitarie e fitosanitarie) al punto 7.7 viene ribadito il ruolo centrale del Codex Alimentarius, l’organismo Fao/Oms deputato all’elaborazione degli standard di qualità alimentare, dai residui di pesticida nei piatti all’uso di OGM (European Commission, 2015 a).

Considerato che spesso i criteri usati dal Codex per la qualità degli alimenti sono più permissivi di quelli europei, questo significa che ogni variazione più restrittiva potrebbe essere considerata “distorsiva del mercato” e per questo sanzionata.

La sommatoria tra nessuna esclusione esplicita del transgenico, la possibilità di inserire l’arbitrato di risoluzione delle controversie e l’utilizzo di standard meno stringenti sulla qualità alimentare crea un mix piuttosto rischioso che, a quanto pare, il governo italiano prova a minimizzare (Calenda, 2015).

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Endnotes:
  1. Società INformazione: http://www.dirittiglobali.it/chi-siamo/
  2. redazione: http://www.dirittiglobali.it/archivio/rapporto-sui-diritti-globali-2013/redazione-2013/
  3. Qui: http://www.dirittiglobali.it/archivio/rapporto-sui-diritti-globali-2015/
  4. indice: http://www.dirittiglobali.it/archivio/rapporto-sui-diritti-globali-2015/
  5. prefazione: http://www.dirittiglobali.it/archivio/rapporto-sui-diritti-globali-2015/
  6. introduzione: http://www.dirittiglobali.it/archivio/rapporto-sui-diritti-globali-2015/
  7. ditore Ediesse: http://www.ediesseonline.it/

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