Bolla continua. Tra Euroexit e doping monetario
Senza una significativa accelerazione della crescita, ci vorranno 10 anni alla Spagna e quasi 20 anni a Portogallo e Italia per ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi (FMI, 2015). Il Fondo Monetario sostiene che la disoccupazione nell’area euro è alta e probabilmente lo resterà per molto tempo. La ripresa nell’area euro si sta rafforzando, con il PIL che accelererà dal +1,5% del 2015 al +1,7% del 2016: i rischi all’outlook sono più bilanciati ma restano di vulnerabilità. La crescita potenziale, stimata all’1% nel medio termine, è bassa per ridurre la disoccupazione. Questo aumenta i rischi di stagnazione.
In questa cornice, la governance del capitalismo globale conferma una valutazione più che ottimista del QE della BCE che avrebbe «migliorato la fiducia, le condizioni finanziarie e aumentato le aspettative di inflazione». Aspettative, appunto, non ancora realtà. In attesa di concretezza, in un anno in cui tutte le istituzioni mondiali hanno mostrato lo stesso ottimismo di maniera, l’FMI ha stimato che ci vorranno 20 anni per riportare l’occupazione ai livelli pre-crisi in Italia.
Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione, promosso dalla CGIL, nel suo volume del 2015, il 13°, contiene come sempre un capitolo dedicato ai temi del lavoro e dell’economia, curato da Roberto Ciccarelli. Il Focus del capitolo nel 2015 è dedicato alla crisi del debito greco.
Qui sotto, invece, un estratto dalla sezione Il Contesto dello stesso capitolo.
Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse
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Il boomerang del denaro a go go
Tra il 2008 e il 2014 la Banca Centrale statunitense, la Federal Reserve, ha stampato 3600 miliardi di dollari per sostenere l’economia americana dopo l’esplosione della bolla finanziaria causata dal fallimento della banca Lehman Brothers. Il governo guidato da Barack Obama ha stanziato circa duemila miliardi di dollari per mettere in sicurezza le banche. Un investimento immane che – secondo il Fondo Monetario Internazionale – ha fatto aumentare il debito pubblico sul PIL degli Stati Uniti dal 72% del 2008 al 104,7% del 2014.
Lo Stato ha dovuto pagare i debiti privati causati dal capitalismo finanziario al fine di salvare il sistema del credito, la spina dorsale di un’economia finanziaria che non ha più alcun contatto con quella reale. In altre parole, il fisco finanzia la domanda dei mercati finanziari, che non intendono sollevare l’economia reale dalla crisi attraverso un nuovo sistema di governo definito keynesismo finanziario, “socialismo finanziario” o “comunismo del capitale” (Marazzi, 2011; Ruggiero, 2013).
Le tasse pagate dalla collettività in una federazione di Stati come gli USA, così come i fondi sovranazionali accumulati dall’Unione Europea, finanziano i “soviet” del mercato: hedge funds, banche d’affari, grandi imprese, banche e multinazionali il cui intervento viene agevolato in ogni modo al fine di attrarre grandi capitali con processi di privatizzazione e vendita di asset per risanare i bilanci indebitati dello Stato e degli enti locali: imprese pubbliche, acqua, elettricità, multiutility locali, il patrimonio e i trasporti pubblici, le pensioni e i servizi sociali (Ciccarelli, 2014).
È il rovesciamento dell’economia keynesiana in una visione cosmogonica della finanza, alfa e omega della vita, oltre che della politica. La novità è che questo enorme flusso di denaro dirottato dal basso verso l’alto, dal pubblico al privato, e dal privato verso la finanza, non serve a far ripartire l’economia, ma ad aumentare le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. Dal 2008 al 2014 il PIL degli Stati Uniti è aumentato del 21,8%, la disoccupazione è tornata al 5,5% dopo il boom dell’ottobre 2009 quando era schizzata oltre il 10%. Tutto bene? Per nulla. Perché la nuova ricchezza prodotta non è stata distribuita verso il basso, ma ha contribuito dall’aumento dei super-ricchi, mentre i poveri sono sempre più poveri. Questa sfasatura tra la crescita degli indicatori macroeconomici e la condizione materiale – o di classe – degli attori dell’economia è una delle conseguenze dell’astrattezza delle politiche keynesiane. Considerata la loro trasformazione – o meglio, trasfigurazione – nel “comunismo del capitale”, sono diventate la prova del rovesciamento della realtà: oggi il privato è il pubblico; l’interesse generale è quello della finanza che sovrintende alla crescita inesistente dell’economia reale; il benessere comune è quello dei super-ricchi, delle banche o delle imprese che dovrebbero far “sgocciolare” verso la plebe dei consumatori in crisi e senza futuro qualche goccia della loro ricchezza.
L’economista francese Thomas Piketty sostiene che la crescita delle disuguaglianze. tra il 2000-2013 corrisponde dunque alla più colossale concentrazione delle ricchezze – non da lavoro ma da capitale – avvenuta dagli anni 1910-1920 (premessa alla crisi del 1929). La civiltà che sarà costruita da oggi al 2050-2100 sarà dominata da traders, super-ricchi, multinazionali, Paesi petroliferi, dalla Banca di Cina e dagli Stati Uniti (Piketty 2013; 2015).
Il caso dello 0,1%. Diseguaglianze e oligarchi globali
I dati sulle disuguaglianze negli Stati Uniti attestano le conseguenze dell’intervento pubblico a favore dell’economia monetaria mondiale (Fondazione David Hume-Sole 24-Ore, 2015). Il tasso di diseguaglianza in territorio americano è rimasto stabile: nei primi anni della politica di “allentamento quantitativo” (Quantitative Easing, QE) della Federal Reserve, dal 2009 a fine 2012 l’indice Gini ha segnalato che la frattura sociale è passata da 37,41 a 37,40. Si tratta di una variazione minima che non registra la spaventosa crescita delle differenze di classe nella società americana. Il valore, su 100, dell’indice Gini è infatti al massimo storico se si considera che nel 1979 – all’inizio della cosiddetta “controrivoluzione neoliberista” – era a 29,9. Ed è aumentata rispetto al valore precedente all’esplosione della crisi: nel 2007 era infatti al 37,8.
Al di là delle medie, la realtà è ben diversa. La politica monetaria ultra-espansiva della Federal Reserve e della Casa Bianca hanno aggravato le disuguaglianze sociali. I redditi dei ricchissimi sono aumentati a dismisura: nel 2009 rappresentavano il 16,68% dei redditi, a fine 2013 il 17,54%. Il 10% della popolazione aveva il 45,47% della ricchezza USA nel 2009, il 47,01% nel 2013. È un aumento superiore persino alla crisi degli anni Trenta. Discorso opposto per i poveri. Nel 2013 erano 45,3 milioni negli Stati Uniti, in calo rispetto al 2012, ma in crescita rispetto ai 43,5 milioni del 2009 e ai 39,8 milioni del 2008. Mai, nella storia americana, i poveri avevano superato i 40 milioni.
La situazione è nota anche alla Federal Reserve, per la quale il reddito mediano delle famiglie americane è calato del 5% tra il 2010 e il 2013. All’interno di questa percentuale la frattura sociale è senz’altro più ampia. Chi ha perso maggiore ricchezza sono le famiglie con il reddito più basso, mentre quelle del ceto medio hanno registrato variazioni minime. Solo le famiglie più ricche hanno beneficiato di un aumento generalizzato del reddito. «Dato che i soldi stampati dalla FED sono finiti sui mercati finanziari e quelli del governo sono in buona parte andati in soccorso delle banche, è ovvio che la prima beneficiaria della ripresa sia stata Wall Street: dall’inizio del Quantitative Easing ha guadagnato il 144%. Ed è ovvio che a godere di questo rally di Borsa sia stato soprattutto chi in Borsa ha grandi capitali: cioè i più ricchi. […] Di fatto i più poveri hanno sostenuto i redditi dei benestanti. Lo squilibrio fiscale in parte è stato sanato da Obama, ma le disuguaglianze no». (Longo, 2015 c).
La crescita della disuguaglianza non è limitata alla sola area anglosassone, ma riguarda la maggioranza dei Paesi, sia quelli coinvolti dalla globalizzazione sia quelli rimasti ai suoi margini. Per le Nazioni Unite su 73 Paesi in cui si concentra l’80% della popolazione mondiale, 48 hanno registrato una disuguaglianza a partire dagli anni Cinquanta. Sedici non hanno registrato trasformazioni significative, solo nove hanno visto diminuire la frattura sociale. Clamoroso è il caso della Cina dove nell’ultimo ventennio si è registrata un’impennata dell’uguaglianza. L’indice Gini è passato da un coefficiente pari a 0,28 nel 1981 a 0,39 nel 2001, con un aumento di circa il 40% in 20 anni, di 0,48 alla metà del decennio (Revelli, 2014).
Alla vigilia del World Economic Forum di Davos del 2015, la ONG Oxfam ha pubblicato il Rapporto Grandi disuguaglianze crescono, che aggrava lo scenario tracciato solo un anno prima. All’inizio del 2014 Oxfam aveva calcolato che 85 persone possedevano la ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, un dato choc che attestava il livello di estrema disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Le nuove stime, effettuati sui dati del Credit Suisse, hanno ricalcolato il numero dei miliardari che nel 2013 possedevano la stessa ricchezza del 50% più povero, e attesta che oggi il loro numero esatto è 92 e non più ottantacinque. Oxfam fa una previsione: nel 2016 la ricchezza dello 0,1% della popolazione mondiale supererà quella del 99%, rendendo obsoleto persino lo slogan del movimento di Occupy Wall Street. Lo 0,1% dei super-ricchi possiede oggi il 48% della ricchezza globale e lascia al restante 99% il 52% delle risorse. Questo 52% è, a sua volta, posseduto da 20% di «ricchi». Il restante 80% si deve arrangiare con il 5,5% delle risorse.
Dal 2010, spiega il Rapporto, gli 80 ultra-miliardari della lista stilata da Forbes (primo Bill Gates, secondo Warren Buffet, terzo Carlos Slim, quindicesimo Mark Zuckerberg; primo tra gli italiani, la famiglia Ferrero) hanno visto le loro ricchezze moltiplicarsi con l’esplosione della crisi globale. Cinque anni fa detenevano una ricchezza netta pari a 1.300 miliardi di dollari. Oggi contano su 1.900 miliardi di dollari. Un aumento di 600 miliardi di dollari, il 50% in termini nominali. Oxfam segnala inoltre una lotta tra i ricchi, visto che il loro numero è diminuito dai 388 del 2010 agli attuali 92 che detengono il volume equivalente alla ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale. Tre miliardi e mezzo di persone si dividono dunque il totale della ricchezza posseduta da queste persone (Oxfam, 2015).
Nell’élite elencata da Forbes c’erano 1645 miliardari nel 2014. Il 30% (492 persone) sono cittadini statunitensi, oligarchi russi, nuovi ricchi cinesi, finanzieri come George Soros e i principi sauditi. Più di un terzo di queste persone ha ereditato, e non prodotto, la ricchezza che detiene, segno che il capitale di produce verso l’alto e non allarga la base della piramide. Il 20% di questi ricchi ha interessi nei settori finanziario o assicurativo, dove la ricchezza è aumentata da 1.010 miliardi di dollari a 1.160 miliardi in un solo anno. Nel frattempo sono cresciuti i miliardari che operano nel settore farmaceutico e sanitario. Nel club sono entrati in 29 con un aumento del 47% della ricchezza collettiva passata da 170 miliardi a 250 miliardi di dollari. I campi biopolitici della cura o della prevenzione delle malattia, così come quello dell’assicurazione contro i rischi, costituiscono uno dei principali fattori dell’accumulazione.
Lo strumento principale per ottenere tale risultato è il lobbismo, una modalità alla quale la finanza e le imprese ricorrono per ottenere benefici dalla politica e dagli Stati. Nel 2013, solo negli USA, il settore finanziario ha speso oltre 400 milioni di dollari per fare lobby. Nell’Unione Europea la stima è di 150 milioni di dollari. Nel vecchio continente, tra il 2013 e il 2014, i super-ricchi sono aumentati da 31 a 39 con una ricchezza pari a 128 miliardi.
Un’élite di oligarchi globali contro un mondo di working poors e poverissimi. Sono dati che smentiscono, una volta in più, la pseudo-teoria neoliberista del trickle-down (il presunto “sgocciolamento” della ricchezza dal basso verso l’alto). La ricchezza di pochi non ha traina lo sviluppo capitalistico né la redistribuzione delle ricchezze. Anzi, aumenta le diseguaglianze.
Sono sette le proposte di Oxfam per invertire questa tendenza: contrasto all’elusione fiscale, investimenti in salute e istruzione pubblica e gratuita; redistribuzione equa del peso fiscale; introduzione del salario minimo e di salari dignitosi per tutti; parità di retribuzione, reti di protezione sociale per i poveri, lotta globale contro la disuguaglianza. Un’agenda in fondo minimalista per provare a rovesciare la direzione della lotta di classe dal basso verso l’alto (Ciccarelli, 2015 a).
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