Non solo Tap. Con Eastmed e Poseidon interessi privati a tutto gas
Pochi lo sanno ma in Puglia, a pochi chilometri da dove oggi si protesta contro il Tap, sbarcherà un altro gasdotto con un nome ben più affascinante. Si chiama Poseidon, ed è un progetto già approvato che arriverà fino a Otranto.
Poseidon coinvolge altre imprese e banche, con accordi internazionali diversi rispetto a quelli del consorzio che vuole portare gas dall’Azerbaijan.
Proprio ieri il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda ha firmato a Tel Aviv insieme ai ministri di Israele, Grecia e Cipro, il primo via libera a Eastmed, il più grande gasdotto sottomarino del mondo che dovrebbe portare in Puglia il gas naturale off shore dei giacimenti al largo di Israele e Cipro.
Per non perdersi in questo cortocircuito di tubi e interessi, che ha al centro il Salento, occorre tornare al dibattito che negli ultimi venti anni è avvenuto in Italia sul tema del gas.
Perché per lungo tempo è andata avanti una campagna mediatica che prometteva un futuro radioso per l’Italia grazie a tubi e rigassificatori che, da Porto Empedocle a Trieste, avrebbero reso finalmente il nostro Paese moderno e le imprese competitive, grazie alla concorrenza sul gas.
In tanti teorizzavano che il successo sarebbe stato garantito proprio dal lasciare libertà alle imprese di scegliere quanti presentarne – si è arrivati a 15 progetti di rigassificatori in Valutazione di Impatto Ambientale – e di decidere il luogo più adatto.
Un bel film. Peccato che l’esito sia stato molto diverso.
Quasi tutti i progetti sono stati abbandonati, mentre quello realizzato a Livorno è stato un tale fallimento che si è dovuti intervenire con una delle manovre tipiche del capitalismo «all’italiana». Improvvisamente, quello che doveva essere il monumento alle capacità del mercato di scegliere le soluzioni più intelligenti è diventata, per legge, una infrastruttura strategica a cui assegnare, come «fattore di garanzia», 70 milioni di euro ogni anno da prelevare nelle bollette dei cittadini italiani.
Il rigassificatore su nave a Livorno, un tipo di soluzione mai adoperato al mondo, come l’approdo del gasdotto sulla bella costa di Melendugno, sono due esempi di quanto sia sbagliata una idea per cui nelle scelte che riguardano le infrastrutture energetiche si debba lasciar fare ai privati.
Quale logica vi sia nel far arrivare due tubi sotto le spiagge del Salento o perché portare avanti tutti quei progetti di rigassificatori, in un Paese che ha visto ridurre il consumo di gas in questi anni, non è dato sapere.
Eppure da Berlusconi a Gentiloni, passando per Letta e Renzi, la risposta è sempre la stessa: «l’Italia deve diventare un grande Hub del gas».
Qui sta il cortocircuito della politica quando perde il contatto con la realtà e non solo quella nei territori, ma persino dei numeri, a forza di incontrare lobbisti, banchieri e pseudo imprenditori dell’energia.
E, purtroppo, sta qui la ragione per cui in Italia da 4 anni le fonti rinnovabili sono ferme e si blocca ogni politica di rilancio. Addirittura oggi gli interventi potrebbero essere realizzati senza incentivi, per la riduzione del costo del solare, si vieta per legge quello che in altri paesi è possibile da anni. Ossia consentire lo scambio di energia prodotta da rinnovabili dentro gli edifici e tra imprese limitrofe, attraverso imprese cooperative.
E qui torniamo alla politica, perché sia a livello nazionale che regionale è mancata in questi anni una visione del futuro dell’energia, che permetta magari di capire a cosa dovrebbe servire tutto questo gas che entra in Italia o che si vorrebbe estrarre in mare e a terra.
Una visione serve soprattutto per prendere delle decisioni, come quella di stabilire la data entro la quale chiudere le centrali a carbone di Cerano e Brindisi, le vere emergenze sanitarie e ambientali della Puglia, insieme all’Ilva. Purtroppo, nella logica del Ministero dello Sviluppo Economico non importa quanto inquinino le centrali, l’importante è fermare qualsiasi alternativa.
Un esempio è il biometano, che si potrebbe produrre in Italia da discariche e scarti agricoli, fermo insieme a decreti in attesa da anni. E persino lo sviluppo delle auto elettriche è stato rallentato, perché – unici al mondo – per il governo sono meno strategiche di quelle a gas. Eppure oggi è davvero possibile chiudere quelle centrali inquinanti, puntando su una generazione sempre più distribuita ed efficiente dentro le città e nelle fabbriche, come nelle aree agricole.
Un sogno dei soliti ambientalisti? Al contrario, questo scenario è chiaramente scritto nel nuovo Pacchetto europeo «Energia e Clima» che sarà approvato nei prossimi mesi, dove non solo si fissano obiettivi quantitativi che vanno in quella direzione ma si fissano i diritti dei «Prosumer» e delle «Comunità dell’energia». Ossia di cittadini, cooperative, aziende che producono e scambiano energia prodotta da fonti rinnovabili nei territori.
Scommettiamo che nella nuova Strategia energetica nazionale, che tra pochi giorni sarà presentata dal Ministro Calenda, di questo scenario delle rinnovabili non vi sarà traccia, come della chiusura delle centrali a carbone, ma che tutta l’enfasi sarà sul gas?
* L’autore è vicepresidente nazionale di Legambiente
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